Il governo cinese corre per dettare gli standard globali. Un esempio? Difendere i diritti umani sarebbe, per Pechino, una violazione del diritto internazionale. E lo stesso rischia di accadere anche con la tecnologia. Un tema che ci riguarda, visti i recenti casi di videosorveglianza “made in China”
“Bruxelles dovrebbe riconoscere che il mondo che Pechino intende realizzare è quello in cui il biasimo per atroci abusi dei diritti umani in un altro Paese è una violazione delle norme internazionali, piuttosto che l’adesione [a esse]. Ciò è incompatibile con i valori e l’attuale identità politica dell’Unione europea”.
A scriverlo è Jacob Mardell, analista del Merics, un centro studi tedesco finito recentemente sotto sanzioni cinesi dopo le tensioni tra Bruxelles e Pechino sulla situazione nello Xinjiang.
La fotografia della politica estera cinese scattata dall’esperto torna utile alla luce di alcune notizie pubblicate sui giornali italiani negli ultimi giorni. Due in particolare, che riguardano l’installazione di tecnologia cinese – per giunta di aziende sotto sanzioni del nostro principale alleato, gli Stati Uniti – nella Pubblica amministrazione: 19 termoscanner Dahua a Palazzo Chigi (installati durante il secondo esecutivo guidato da Giuseppe Conte, quello giallorosso) e oltre 1.100 telecamere Hikvision nelle Procure.
Ma come dimenticare anche la presenza di strumenti di sorveglianza “made in China” anche nelle nostre città. A partire dalla capitale.
Alcuni giorni fa, su Formiche.net, mettevamo in luce tre rischi di fare affidamento su queste tecnologie cinesi: rafforzare aziende accusate di violazioni dei diritti umani dando loro soldi e legittimità; mettere a rischio la sicurezza dei dati alla luce delle accuse di diverse intelligence occidentali; favorire l’ascesa di Pechino, decisa a dettare gli standard globali anche nell’arena tech. Rischi che, aggiungevamo, potrebbero suggerire il ricorso a una review dei dispositivi acquistati e in funzione nella Pubblica amministrazione italiana.
Imporre gli standard sembra essere l’obiettivo del governo cinese. Sulla gestione dei dati. Sui diritti umani. Sulle tecnologie emergenti, che trasportano i dati e che vengono utilizzate anche con fini di controllo, se non addirittura di repressione come accade nello Xinjiang.
Le parole di Mardell si possono semplificare, e contestualizzare nell’ambito tecnologico, richiamando a quel concetto di “ingerenza” che le autocrazie usano spesso – la Cina su Hong Kong e Xinjiang, la Russia sul caso di Alexei Navalny, tanto per fare due esempi.
Non rimane, dunque, che una domanda: fino a quando?