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Salvini, Meloni e le amministrative. Tutti i nodi del centrodestra

Da Milano a Torino, da Roma a Napoli, le amministrative non hanno ancora nomi certi, anzi. E se elettoralmente – e nei sondaggi – la scelta della Lega di stare al governo e di Fratelli d’Italia di rimanere all’opposizione è vincente, quando si scende in campo saper tradurre i numeri globali in linea politica condivisa è ben diverso. L’analisi di Marco Zacchera

Elettoralmente – e nei sondaggi – la scelta è sicuramente vincente: con Salvini al governo e la Meloni all’opposizione si coltivano due orticelli opposti e diversi, ma insieme agli altri partner minori – come è diventata Forza Italia e il drappello di movimenti centristi – significa avere teoricamente i numeri per governare il Paese.

Teoricamente, perché quando c’è da scendere sul piano concreto i nodi vengono al pettine e se la scelta è ipoteticamente vincente nei numeri globali, ben diverso è però poi saperli tradurre in linea politica condivisa.
Oltretutto è evidente che FdI gioisce dei problemi della Lega al governo quando Salvini non può imporsi al resto della coalizione e sottolineandone i limiti aumenta la rivalità tenendo anche conto che mentre i sondaggi sottolineano una crescita della Meloni le rappresentanze parlamentari e locali sono oggi molto più spostate a favore della Lega. Si spiegano anche così le resistenze leghiste ad abbandonare la presidenza del Copasir che spetterebbe all’opposizione.

Nodi importanti che emergono quando sono da decidere le candidature locali e non sarà facile varare una piattaforma programmatica nazionale in vista di nuove elezioni.

Visto che nelle grandi città si parte da uno 0-4 è ovvio che è sui programmi che qui sarà molto più facile intendersi, eppure è un anno che si propongono e sparigliano candidati e mentre il tempo stringe l’ufficialità delle candidature è ancora di là da venire.

Così il rischio di perdere seccamente alle comunali per il centrodestra si fa concreto: a Milano solo Albertini avrebbe forse i numeri per giocarsela quasi alla pari con il favoritissimo Sala, baciato anche dai media, A Roma è tuttora notte fonda (e vincere può essere comunque per tutti una sciagura), a Torino il candidato più probabile a destra si chiama Paolo Damilano e – se già l’assonanza fa sorridere – il problema è, soprattutto, che i voti intercettabili sembrano insufficienti per andare oltre il ballottaggio.

Notte fonda anche a Napoli con Catello Maresca – candidato in pectore – che nei sondaggi non va oltre il 30%
Quindi? Quindi vincere a Milano sarebbe fondamentale, eppure gira e rigira si sono persi anni, ma di candidati vincenti non se ne sono stati trovati e anche lo stesso Albertini (che ad oggi ha cortesemente rifiutato) sarebbe comunque solo un usato sicuro.

Roma? Governare Roma è un problema per tutti, a sinistra la bagarre è generale e chissà se a destra si sia pensato di cercare di ribaltare il tavolo magari con una proposta-choc, ovvero un appoggio “tecnico” a Carlo Calenda, tenuto conto che nei sondaggi quasi la metà del campione è ancora incerto.

Sembrerebbe una bestemmia, ma aprirebbe un’ulteriore frattura a sinistra con un candidato che “del suo” ha già oltre un 10%. Certamente Giorgia Meloni avrebbe questa volta ottime possibilità se si candidasse a sindaco, ma rischierebbe di bruciarsi viste le condizioni politico-amministrative della Capitale per la quale più che un sindaco servirebbe forse un “governatore” di nomina regia, capace di imporsi in una situazione di notevole ingestibilità.

Ma torniamo al punto di partenza: a parte le amministrative, decollerà o meno un centrodestra condiviso? È nella logica delle cose, ma il complicato rapporto dentro e fuori il governo non agevola i rapporti e la crescente importanza di Fratelli d’Italia imbarazza la Lega dove crescono i malumori verso i “Fratelli” che riempiono quello spazio fisiologico che un partito di governo – cedendo forzatamente a compromessi – lascia libero per quell’ampia fetta di elettori delusi che esistono sempre.

Un’area che può crescere se Draghi non riuscisse a surclassare i suoi predecessori cambiando radicalmente il Paese che – purtroppo – spesso non vuole essere cambiato.

C’è comunque una certa differenza tra il team Berlusconi-Fini e il tandem Salvini-Meloni. Là c’era un leader indiscutibile che nel bene e nel male dettava la linea, con Fini a crescere in credibilità personale fino al profondo e progressivo dissidio che non era arrivato per caso, ma nei fatti cresceva da tempo. A parte gli sciagurati affari a Montecarlo e dintorni non c’è dubbio che Fini, eterno Delfino, non ce la facesse più a reggere l’inossidabile leadership del Cavaliere che – incredibilmente – dieci anni dopo è ancora lì nonostante gli anni e “il logorio della vita moderna”.

Oggi sia Salvini che la Meloni appaiono concorrenziali e nessuno dei due deve farsi più riconoscere patenti di democraticità. La Meloni ha portato Fratelli d’Italia su posizioni perfino più trasversali e politicamente moderne del concorrente – vedi le recenti aperture a Biden – che batte e ribatte soprattutto su alcuni temi-chiave (per esempio quello dell’immigrazione che tornerà fatalmente ad esplodere, con probabili tensioni interne al governo).

Gioca a favore della Meloni anche l’essere l’unica donna leader italiana e una indubitabile verve, ma pesa su di lei una forte “romanità” che impedisce al partito di radicarsi soprattutto in quei territori dove la Lega amministra a livello locale.

Determinante sarà anche il sistema elettorale che ad oggi sposta i numeri più sulle liste (bloccate) che i singoli collegi. Logico, quindi, che la visibilità sia tutto anche per una certa sovrapponibilità dell’elettorato e quindi, anche se vi possono essere condivisioni di fondo, almeno a breve tra Matteo e Giorgia sarà quotidiana battaglia di commandos.


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