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Così Biden soffia sulle tensioni Cina-Santa Sede

La conferenza dell’ambasciata statunitense presso la Santa Sede, dal titolo “Diritti umani in Cina: uiguri e minoranze religiose”. Il cuore dell’evento è stata la definizione di “genocidio” degli uiguri

Dall’immigrazione al vaccino, le politiche di Joe Biden e papa Francesco hanno riportato gli Stati Uniti e la Santa Sede a essere vicini come poche volte. Sicuramente, per trovare un feeling simile tra il presidente cattolico e il pontefice si deve guadare a prima dell’ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.

E se questo rapporto arrivasse a toccare un tema come la Cina su cui le due parti negli ultimi anni sono state su posizioni quasi opposte?

Nei giorni scorsi Massimo Franco ha raccontato sul Corriere della Sera l’irritazione della Santa Sede davanti alla Cina che starebbe disattendendo l’accordo sulla nomina dei vescovi prorogato lo scorso autunno. E in un’intervista a Formiche.net Nathan Law, attivista di Hong Kong che ha trovato rifugio nel Regno Unito, ha chiesto al pontefice di mettere fine ai suoi silenzi e di parlare di Hong Kong.

Al centro dell’agenda del presidente statunitense c’è il tema dei diritti civili e religiosi, che riguarda inevitabilmente la Cina con Hong Kong, il Tibet e la questione degli uiguri nello Xinjiang, con le pratiche del governo cinese definite da Washington “genocidio”.

A tal proposito è da segnalare un’iniziativa dell’ambasciata statunitense presso la Santa Sede, una conferenza dal titolo “Diritti umani in Cina: uiguri e minoranze religiose”. Tre gli ospiti dell’incaricato di affari Patrick Connell; la professoressa Rachel Harris dell’Università di Londra; Gulchehra Hoja, giornalista di Radio Free Asia; e Marcela Szymanski, direttore di «Religious Freedom in the World» di Aid to the Church in Need (Aiuto alla Chiesa che soffre). A moderare l’incontro John L. Allen Jr., direttore del giornale online Crux.

“L’amministrazione Biden ha adottato misure importanti per scoraggiare le violazioni dei diritti umani da parte della Cina nello Xinjiang e per accendere l’attenzione sulla crisi uigura”, ha spiegato il diplomatico statunitense che ha citato anche le situazioni dei kazaki e dei buddisti in Tibet. Riconoscere pubblicamente gli abusi in Cina “è un passo importante” affinché il governo cinese sia messo davanti alle sue responsabilità, ha aggiunto.

Il cuore dell’evento è stata la definizione di “genocidio” degli uiguri (che molte tensioni ha generato anche nel Parlamento italiano, come raccontato da Formiche.net). Hoja ha raccontato della sua famiglia: “almeno 24 membri” sono stati mandati dal governo cinese “nei campi di concentramento”. E anche del suo lavoro: Pechino “mi ha accusata di essere una terrorista perché sono una giornalista”. Harris ha definito le pratiche del governo cinese nello Xinjiang un modo per ”cancellare cultura e identità uigure”. Szymanski, invece, ha posto l’accento sull’utilizzo della tecnologia per reprimere il dissenso e controllare quelli che Pechino definisce “terroristi”, cioè gli uiguri.

Washington ha teso la mano. Ora la palla è San Pietro. 



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