L’avvento della pandemia ci ha ricordato quanto interconnesso e vulnerabile sia il sistema globale. Lo stesso vale per gli impatti della crisi globale che, secondo le dinamiche del cosiddetto “effetto farfalla”, rischiano di ramificarsi da un’area all’altra del Pianeta, con profondi impatti sulla sicurezza. La riflessione di Luca Franza, responsabile del programma Energia, clima e risorse dell’Istituto affari internazionali
Se un anno e mezzo fa ci avessero pronosticato che il salto di specie di un virus avrebbe innescato la più forte crisi economica dal Dopoguerra saremmo rimasti perplessi. Nessun modello quantitativo aveva previsto non solo l’insorgenza della pandemia, ma anche le potenziali ripercussioni a cascata di un simile evento. In effetti, una delle lezioni che ne possiamo trarre è che tutto è interconnesso, e che delle crisi complesse possono ramificarsi rapidamente secondo le dinamiche proprie del butterfly effect.
L’ultimo anno non è stato solo un anno di pandemia, ma anche di disastri ambientali legati al cambiamento climatico, come gli incendi in Australia e California. Il cambiamento climatico è un potente acceleratore di crisi complesse. Esso si innesta su crisi già in atto o in potenza, intersecandosi con fattori economici, ambientali, politici e sociali. Per questo è riconosciuto ufficialmente come un grave “moltiplicatore di minacce” alla sicurezza.
Innanzitutto, il surriscaldamento globale fa arretrare pascoli e terre agricole attraverso la desertificazione e riduce i rendimenti delle colture in un contesto di crescente domanda di cibo (tra il +59% e il 98% entro il 2050). Esso inoltre contribuisce ad accrescere la volatilità dei prezzi delle derrate. Aumenti repentini di prezzo possono concorrere ad alimentare proteste ed episodi di guerriglia urbana, come è accaduto in Egitto nel 2011 e nel 2013.
Anche la competizione per l’accesso all’acqua rischia di aggravarsi a causa del cambiamento climatico, che contribuisce al prosciugamento di specchi d’acqua necessari per l’irrigazione e l’approvvigionamento in un contesto di consumi idrici crescenti (+55% entro il 2045). In regioni bagnate da fiumi con sorgenti ad alta quota, lo scioglimento dei ghiacci determinerà un calo irreversibile della portata dei bacini. Questo si applica a regioni fragili come il Pakistan e la valle di Ferghana.
Più una comunità dipende dall’agricoltura di sussistenza, più essa è vulnerabile al cambiamento climatico. Nel Sahel, un’area interessata da crisi complesse e strategica per l’Italia, il 90% della popolazione dipende dal settore primario. In continenti dove l’agricoltura è alimentata da acque piovane, come l’Africa, la competizione sarà agguerrita soprattutto per il controllo delle terre, mentre in regioni alimentate da sistemi irrigui, come l’Asia centrale, le lotte si faranno per il controllo dell’acqua.
Si stima che la competizione per il controllo della terra sia stata una delle cause scatenanti in ventisette conflitti africani su trenta negli scorsi due decenni. Un caso di scuola è quello del Darfur: il fatto che, a partire dagli anni Settanta, la regione sia stata interessata da sedici dei venti anni più aridi mai registrati ha alimentato le tensioni inter-etniche. Un altro è quello del Mali, dove le siccità del 2005, 2010 e 2011-12 hanno fomentato l’estremismo. Secondo i climatologi, tra le aree fragili, quelle in cui i fenomeni di siccità si aggraveranno maggiormente saranno l’America centrale, il Brasile settentrionale e l’Africa meridionale.
La ricorrenza degli eventi meteorologici estremi è accresciuta dal cambiamento climatico. Le catastrofi rischiano di mettere sotto pressione sistemi di governance già molto deboli, creare danni economici a popolazioni vulnerabili e favorire l’emigrazione. L’incapacità dei governi locali di rimediare in tempi brevi alle conseguenze delle catastrofi può ulteriormente alimentare il malcontento. I paesi più esposti al rischio di siccità e carestie saranno più vulnerabili ad altri tipi di minacce: disoccupazione, emigrazione, maggior predisposizione ad attività criminali o terroristiche, tensioni inter-etniche, instabilità politica e conflitti armati per il controllo di risorse sempre più scarse. Ma il nesso causa-effetto è spesso difficile da rintracciare con precisione.
È importante sottolineare come in questi casi il cambiamento climatico non sia il chiaro fattore scatenante bensì, al limite, un moltiplicatore di minacce preesistenti. Restando nel Sahel, un esempio spesso citato è quello del lago Ciad, la cui superficie si è ridotta del 90% dal 1960 al 1990. Nella regione circostante il terreno è sterile per l’agricoltura ma fertile per le campagne di reclutamento di Boko Haram. La narrazione sul nesso causale tra tutti questi fattori tuttavia non è sempre convincente e rischia di essere fuorviante perché informa soluzioni poco efficaci.
Il nesso tra clima e sicurezza è sicuramente presente ma è difficile rintracciare un nesso logico che può essere generalizzato. Si può tuttavia dire che il cambiamento climatico è, in molti casi, un moltiplicatore delle minacce. Questo costituisce un ulteriore incentivo a combatterlo, anche in consessi come il G20 e la COP26 in cui l’Italia svolge un ruolo di primo piano nel 2021.
Quello che si è detto sul nesso tra clima e sicurezza spinge in particolar modo a riequilibrare il rapporto tra mitigazione e adattamento climatico. Il clima sta infatti già cambiando: è dunque fondamentale investire per adattare e preparare le aree più fragili alle conseguenze. Alcune di queste aree fragili, come il Sahel, si trovano alle porte di regioni strategiche per il nostro paese e meritano dunque un’attenzione speciale.