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Come dovranno essere ridisegnate le città dopo la pandemia

Di Lorenzo Bona e Luca Sanna

La pandemia ci porterà a progettare città e spazi urbani in grado di resistere meglio ad eventi naturali. Self-control, radura, biodiversità, nuove modalità di trasporti e convivenza. Gli scenari di Lorenzo Bona (Limestone Economics e Fondazione Economia Tor Vergata) e Luca Sanna, ingegnere e già docente di progettazione e costruzione dell’architettura

Lo sviluppo dei vaccini anti-covid, la loro somministrazione a crescenti fasce di popolazione e il lancio di importanti piani a sostegno e rilancio dell’economia, in molte parti del pianeta stanno contribuendo a dar forza ad aspettative post-pandemiche di cauto ottimismo circa le capacità di ripresa e resilienza dei moderni sistemi economico-sociali. Eppure l’emergenza pandemica ancora largamente in corso ha creato un impensabile cambiamento nei nostri stili di vita e nel modo in cui guardiamo alla realtà circostante. Per tutti noi questa realtà si materializza in larga misura in una serie di interrelazioni che tengono insieme società, economie e i relativi territori di sviluppo.

Ed è in quest’ottica che la natura straordinaria dei tempi attuali sollecita l’esigenza di nuovi ragionamenti capaci di generare possibili prospettive teoriche, se non d’azione, per una progettazione di città e spazi urbani in grado di resistere meglio ad eventi naturali che – al pari di una pandemia di origine virale come quella ancora in corso nel nostro pianeta al momento in cui queste pagine vengono scritte –  allontanano molte persone dalla possibilità di soddisfare il raggiungimento di obiettivi primari ampiamente riconducibili alla preservazione della salute, del benessere e della sicurezza.    

Considerando questa esigenza – seppure con sguardo rivolto non all’immediato ma a cosa fare una volta superato ovunque e completamente lo stato emergenziale – appare utile provare a richiamare qualche breve considerazione sul tema dei rapporti tra gli spazi abitativi creati dagli uomini e la natura circostante, tra centro e periferia, tra gli scambi mutualmente vantaggiosi e quelli impoverenti, con l’intento di mostrare le potenzialità derivanti dall’interazione di due concetti: quello di “radura”, emerso nel campo dell’architettura contemporanea, e quello di “self-control”, elaborato nell’ambito dell’economia e della psicologia sperimentale.

Lo schema di ragionamento di seguito delineato suggerisce che l’impiego congiunto di questi due concetti – uno urbanistico, l’altro comportamentale – può risultare fonte d’ispirazione utile per ridisegnare la città.

  1. Le città in tempi di pandemia e l’urgenza di modelli di sviluppo urbano più sostenibili    

Architetti, urbanisti, economisti, esperti e policy makers – non da oggi, ma da tempo – sono impegnati in riflessioni e dibattiti sull’evoluzione dei rapporti tra ambiente costruito, natura e comportamenti di scambio che accompagnano la vita umana. Obiettivo principale di tali riflessioni e dibattiti è quello di capire come si possano realizzare o favorire equilibri socio-ambientali migliori di quelli emersi sinora.

E per questo motivo speciale attenzione è solitamente riservata all’attuale configurazione dello sviluppo economico – dato l’impatto di questo sugli equilibri socio-ambientali – per valutare quali siano stati gli esiti prodotti dal suo stesso divenire, mettendo a confronto benefici e costi. Da un lato, un’idea largamente condivisa è che tale sviluppo ha  solitamente coinciso con fenomeni di urbanizzazione e di costituzione di città che sono stati, a loro volta, accompagnati da un innalzamento dei livelli di alfabetizzazione ed istruzione scolastica, di ingresso nel mondo del lavoro, di accesso a servizi di assistenza sanitaria e sociale; dall’altro, un’opinione diffusa e forse sempre più insistente – che mette in conto il costo di questi miglioramenti socio-economici – trova un riflesso in una preoccupante espansione dell’inquinamento di numerosi territori, nell’abbandono e nel degrado di molti centri urbani, nella creazione di periferie in crescente stato di emarginazione.

In questo quadro si allarga anche il senso di preoccupazione per l’inadeguatezza di molti luoghi abitati e costruiti nell’offrire riparo sicuro nell’eventualità di shock naturali – come terremoti, maremoti, o persino epidemie – che ancora paiono caratterizzarsi per una terribile imprevedibilità, nonostante gli enormi progressi della scienza moderna. Un senso di preoccupazione che oggi – con la diffusione del Covid-19 – sembra essere persino cresciuto ulteriormente tanto da rimanere come in uno stato sospeso in attesa di idee, piani d’azione e progetti per rilanciare la vitalità di città, agglomerati urbani e relativi centri economici in termini meno vulnerabili di quelli sperimentati sinora.

Il senso di preoccupazione che attualmente ruota attorno al futuro delle città può apparire riconducibile prevalentemente a un passaggio nel modo di guardare ad esse. Per lungo tempo, prima dell’emergenza Covid-19, le città venivano viste da molti come luoghi dove la densa aggregazione delle persone era capace di creare prosperità e facilità di scambi, contatti e incontri interpersonali, che – ponendosi spesso in contrasto con gravi forme di isolamento sociale – potevano essere persino capaci di aiutare le persone a vivere meglio anche dal punto di vista del benessere psico-fisico.

Ora sono proprio gli alti livelli di densità demografica tipica delle moderne città e aree metropolitane ad essere fonte di ansie e timori, dato che è la densità stessa della popolazione l’elemento principe che facilita lo scambio, da una persona all’altra, di fattori nocivi, come pericolosi virus e infezioni. Tant’è che nelle aree principali del pianeta dove si è maggiormente sviluppata l’attuale pandemia da Covid-19 sono state quasi sempre adottate drastiche e costose misure per un suo contenimento, o mitigamento, basate sulla riduzione dei livelli di densità e aggregazione delle persone attraverso forme di distanziamento sociale, auto-isolamento, chiusura di scuole e numerose attività produttive e/o commerciali considerate non essenziali.

È in questo scenario, dove si sommano enormi costi in termini sia di vite umane, sia di elevatissimi danni economici e sociali, che da più parti – oltre a reagire con la messa in atto di diversi piani d’azione per far fronte all’emergenza dal punto di vista socio-economico e sanitario per il presente – si è iniziato anche a prestare maggior attenzione al post-emergenza, e a sollecitare ragionamenti e nuove priorità più rispondenti all’esigenza di modelli di città e spazi urbani meno vulnerabili di quelli attuali.

Diversi ragionamenti emersi sinora sembrano convergere verso l’idea di dar ancor più rilevanza rispetto al passato al bisogno di una transizione delle nostre società verso schemi di sviluppo socio-economico più sostenibili dal punto di vista dell’impatto ambientale, così da favorire anche la nascita o un’espansione di forme di urbanizzazione sempre più sicure, salubri e prospere.

A tal fine, ad esempio, da più parti si sollecita l’esigenza di un ripensamento delle città che acceleri una loro evoluzione imperniata sulla progettazione di edifici energeticamente più efficienti, di aree urbane più ricche di piante e vegetazione, di sistemi di mobilità alimentati attraverso fonti energetiche rinnovabili. Si tratta di una transizione complessa e di medio-lungo periodo, che pure non appare utopica ma realizzabile, specie se – come spesso è osservato –  trova sostegno in dinamiche sociali basate su adeguati livelli di cooperazione intersoggettiva.

E ciò, da un lato, per superare problematiche di coordinamento tra i vari interessi che guidano il comportamento dei cittadini e delle istituzioni pubbliche e private con cui è organizzata la loro vita sociale; dall’altro, per evitare che interessi a breve temine diretti al raggiungimento di benefici relativamente immediati prevalgano – come di frequente avviene per gran parte degli schemi comportamentali diffusi in molte società moderne – su interessi più importanti di medio-lungo periodo, come quelli orientati a realizzare la transizione a cui si è fatto cenno.

  1. Verso nuovi disegni urbani: brevi considerazioni sui concetti di self-control e di radura     

   Prendendo spunto da tutto ciò, qualche riflessione aggiuntiva agli argomenti riassunti sin qui potrebbe nascere provando a collegare tra loro due concetti sviluppati in ambiti disciplinari diversi: il concetto di “self-control”  e quello di “radura”.

Si consideri, ad esempio, il self-control alla luce degli studi effettuati dallo psicologo ed economista comportamentale Howard Rachlin, e cioè come fenomeno che tende a manifestarsi quando comportamenti di alto valore sono incorporati in ampi modelli di condotta che vengono preferiti in modo durevole nel tempo, nonostante la tentazione di azioni alternative, che esaminate isolatamente, hanno un valore più elevato rispetto ai singoli comportamenti incorporati in tali modelli.

Se interpretato così, il self control potrebbe stimolare nuove modalità di approccio alla complessità del coordinamento tra molteplici e variegati interessi, tra il breve e il lungo termine, che deve essere risolto per una transizione ottimale delle nostre città verso una loro connotazione allineata alla logica della sostenibilità ambientale.

Nel senso che la rilevanza del self-control è palese proprio per situazioni come quelle a cui è stato fatto riferimento: e cioè quelle dove può sorgere un conflitto tra scelte orientate a ottenere benefici più piccoli a breve e scelte dirette a ottenere benefici maggiori ma spostati più in là nel tempo.

A tale riguardo, va osservato che l’organizzazione di modelli di condotta a sostegno di comportamenti di self-control, nell’accezione qui ricordata, svolgerebbe una funzione fondamentale per promuovere livelli di felicità crescenti, sia sul piano individuale, sia su quello delle relazioni interpersonali. E – considerando che l’interruzione di modelli comportamentali ripetuti stabilmente nel tempo risulta solitamente costosa – gli studi sopra evocati suggeriscono anche che se schemi con sanzioni/punizioni per scelte impulsive possono essere strumentali all’organizzazione di strategie di self-control, un aiuto ancor più efficace per lo stesso scopo potrebbe derivare da schemi alternativi più soft, dove la punizione per l’impulsività non avviene ex-post ma simultaneamente all’interruzione di un determinato piano d’azione per il quale si era preso un impegno.

Un esempio può essere quello dell’avvio di un investimento tramite l’attivazione di una sequenza di comportamenti la cui interruzione risulta di per sé stessa costosa.

Può essere interessante osservare che la maggior efficacia di questi schemi più soft si manifesterebbe specialmente in contesti di scelte la cui complessità è strettamente dipendente dalla presenza di alternative connesse a punti di arrivo aventi una natura tendenzialmente ideale e astratta, come può ad esempio capitare quando si ragiona su obiettivi di altruismo, moralità e benessere fisico, e sulle sequenze di comportamenti necessari a tradurre sul piano della realtà e in via ottimale questi obiettivi.

Se è vero che l’architettura e altre scienze sociali come l’economia sono da sempre orientate verso grandi traguardi ideali – si pensi a quello del miglioramento del benessere complessivo della società, o a quello della progettazione di spazi abitati in grado di accogliere tutti con più altruismo e possibilità di inclusione sociale – allora può apparire sempre più importante provare a integrare logiche di self-control nei nuovi modelli di disegno urbano.

In questo senso, un richiamo al concetto evocato sopra di “radura” potrebbe risultare utile a suggerire possibili vie per l’elaborazione di modelli di disegno urbano più compatibili con la logica del self-control. Tale concetto, largamente riconducibile a proposte urbanistiche sviluppate dall’architetto Stefano Boeri, appare declinarsi in vari modi a seconda del contesto di confronto. Mentre sulla parte del pianeta in espansione demografica ci si interroga sui modelli di sviluppo urbano, nel mondo “antico” ci si confronta sulle strategie di conversione del costruito, alla ricerca di un miglioramento della qualità dell’habitat che corregga gli errori delle espansioni del secondo dopoguerra, ma che allo stesso tempo, renda le città più vivibili per gradienti crescenti di felicità.

Partendo dalle ultime riflessioni, ci si chiede in fondo se possano esistere modelli di retrofit urbano capaci di generare nuove aspettative in termini di felicità, che inducano e sollecitino le persone all’inclusione, ad una modalità gentile e accogliente di confronto.

Prendono un ruolo in questa ottica alcune delle recenti teorie urbane, sulla funzione della vegetazione, orizzontale o verticale, nelle strategie di recupero, sulle modalità di riqualificazione degli scarti domestici, sulle scelte di transito veicolare e a pedali, sull’uso dello spazio vuoto, di risulta. Ed infine sulle modalità per coniugare al meglio il concetto di radura, di riparo, con l’idea di abitato.

Assume pregnanza riflettere sul significato di questo concetto, che comunica un’idea di interruzione di continuità spaziale e ambientale, e il suo ruolo nell’ambito dello sviluppo delle nuove identità urbane e di una loro evoluzione che, a sua volta, apre nuove sfide.

Ad esempio, occorrerebbe capire meglio quanto debbano riacquisire importanza il non costruito, il demolito o l’effetto di crollo, spesso carico di significati profondi, e la capacità di rigenerazione urbana. E, nel far ciò, sarebbe pure interessante chiedersi se i vuoti urbani non rappresentino di fatto delle radure, delle isole urbane di riflessione, le nuove piazze; e se di contro, nel riacquisire centralità, la scuola, anche nelle sue forme architettoniche, non debba ritornare ad essere considerata una radura, un luogo benefico e di importanza strategica formale e culturale.

Non si tratta qui di individuare una modalità di rarefazione del costruito, una regola di compressione degli indici di edificabilità, ma di riflettere sul senso di discontinuità, sulla possibilità di generare nuove isole di felicità e di convivenza.
Provando a raccogliere questo invito a riflettere, verrebbe da dire – in una prospettiva interdisciplinare – che gran parte dei dilemmi appena evocati circa le prossime scelte di (ri)generazione urbana e di (ri)progettazione nel costruito e nel non-costruito sembrerebbe avere un elemento distintivo principale: quello che gli individui rilevano quando si trovano in situazioni connesse a ricompense a breve termine spesso in conflitto con ricompense maggiori ma disponibili in un tempo più lontano.

È in questo senso che nell’ambito dell’architettura contemporanea, il concetto di radura – sviluppato in collegamento all’idea di self-control – potrebbe avere una speciale carica innovativa e suggerire, in modo lungimirante, nuovi orizzonti ideali per le prossime scelte in ambito di gestione e sviluppo degli spazi urbani e delle relazioni interindividuali che devono potere prendere vita e al loro interno.

E ciò tanto più se si considera che alcune città moderne sembrano predisposte a sperimentare metodi di self-control per la rivitalizzazione dello spazio urbano, ridisegnando gli spazi di risulta, ripensando alla funzione dei vuoti e delle vie, degli spazi pedonali, orientati verso una rilettura dei tempi della vita e dei contatti umani, dello spazio per gli animali e della vegetazione.

A titolo di esempio il progetto “Biodiversity“ in architettura rappresenta da quasi un decennio un esempio di lavoro, in un continuo interrogarsi sul ruolo che il design giocherà nel controllo e nel rapporto tra natura e artificio; tra progetti lungimiranti vantaggiosi e esempi depauperanti.

Il ragionamento svolto sin qui non pretende chiaramente di fornire un rimedio definitivo per le principali distorsioni socio-ambientali prodotte dall’evoluzione dello sviluppo urbano. Tuttavia, esso potrebbe fornire almeno qualche direttrice per l’elaborazione di modelli di sviluppo urbano maggiormente inclusivi e capaci di offrire anche ai meno fortunati condizioni esistenziali più accettabili di quelle da loro godute sinora.

Tra le possibili direttrici allineate ad una più stretta interrelazione tra il concetto di radura e quello di self-control, si imporrebbe degna di speciale attenzione quella di una ridefinizione del piano/area orizzontale dello sviluppo urbano, ma anche di un contenimento dello spazio in cui lo sviluppo urbano assume una dimensione verticale, per torri e grattacieli.

D’altro canto – pensando ancor più pragmaticamente al futuro delle città dopo l’emergenza Covid-19 – un fronte storicamente problematico come quello della mobilità urbana e del trasporto pubblico potrebbe avere evidenti benefici da una interrelazione più stretta tra i due concetti al centro di queste riflessioni, così da rafforzare pure linee di condotta incentrate su criteri di auto-controllo che in qualche misura hanno iniziato a prender corpo anche come reazione di difesa contro la stessa pandemia (si pensi ad esempio al cosiddetto distanziamento sociale).

Un sistema di mezzi di trasporto pubblico – se aiutato a superare in via ottimale l’attuale fase di crisi e se messo in grado di svilupparsi anche attraverso un’offerta di più spazi vuoti tra i passeggeri rispetto agli spazi solitamente riservati a chi viaggia – potrebbe offrire alle società moderne uno strumento in più per contrastare lo scoppio o la ricomparsa di malattie che – similmente all’attuale pandemia – sono rese più contagiose e ingestibili per via di un eccessivo addensamento delle persone sui mezzi di trasporto.

Parimenti interessante sarebbe anche considerare il contributo che potrebbe derivare ove le imprese, in analogia a quanto detto sul trasporto pubblico, si dotassero sempre più di spazi lavorativi meno congestionati e introducessero forme di organizzazione basate su orari differenziati di inizio e fine lavoro nonché spalmati, se necessario, lungo l’arco dell’intera settimana e con sistemi di telelavoro.

Il self-control suggerirebbe di meditare con cautela davanti alla tendenza di una crescita urbana verticale che, se attuata in modo sistematico e totalizzante, produrrebbe la perdita della centralità dell’ambiente naturale rispetto a quello riprodotto artificialmente, pur sempre tecnologicamente necessario, per trasformare buone intenzioni in esiti non più armonicamente componibili e per questo destinati a evocare scenari pericolosi quanto, evidentemente, inclinati oltre il controllo.

Note bibliografiche:

Bruni L. (2010), “The happiness of sociality. Economics and eudaimonia: a necessary encounter”, Rationality and Society, 22(4), pp.383–406.

Rachlin H. (2000) The science of self-control, Harvard University Press, Cambridge.

Clément G. (2008), Il giardiniere planetario, 22 Publishing, Milano.

Augé M. (2008), Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera,Milano.

Paganetto, L. (ed.) (2020), “Capitalism, global change and sustainable development”, Springer.

Progetto Radura, Stefano Boeri Architetti, Università degli Studi, Milano, Cliente Interni magazine, 2016.

Khan S., Colau A., “City properties should be homes for people first – not investments”, The Guardian, Tue 3 Jul 2018, https://www.theguardian.com/commentisfree/2018/jul/03/city-properties-homes-people-first-london-barcelona

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