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Il partigiano bianco, il Cile e l’ultima trattativa per Moro

Mons. Fabbri: “Corrado Corghi? Sì, ricordo questo nome, me lo ha fatto Curioni. Moro doveva essere liberato il 9 maggio”. Il Cile citato anche da Andreotti nei verbali del Cdm del 21 maggio. Maria Antonietta Calabrò rivela le ultime notizie esclusive sul Caso Moro

Corrado Corghi? Sì, ricordo che questo nome me lo ha fatto Curioni”. Monsignor Fabio Fabbri per molti anni braccio destro del Capo dei cappellani delle carceri, monsignor Cesare Curioni, conferma il ruolo svolto per tentare di liberare Moro da parte di Corghi, una figura di spicco del mondo cattolico, dal Dopoguerra agli anni Ottanta. Corghi era di Reggio Emilia. Di lui si conosceva la propensione al dialogo con brigatisti storici come Alberto Franceschini, Franco Bonisoli, Roberto Ognibene e il carceriere di Moro, Prospero Gallinari. Tutti anche loro originari di Reggio Emilia.

Finora, c’erano state ricostruzioni sul fatto che Corghi aveva cercato, arrivando a Roma, di interessare i ministri dell’epoca ad una trattativa. Ma non c’era stato ancora un testimone diretto che affermasse che Corghi poi abbia effettivamente avuto a che fare con la trattativa per Moro, e che questa trattativa gestita da don Curioni e che potremmo chiamare “vaticana” (che chissà perché ancor oggi alcuni esponenti negano), sia andata avanti a lungo, fino al giorno dell’esecuzione dello statista Dc, cioè il 9 maggio di 43 anni fa.

Ha dichiarato monsignor Fabbri a chi scrive nell’aprile 2021: “Sì, monsignor Curioni mi disse che Moro stava per essere liberato che per questo era vestito di tutto punto perché dove la visita medica al Policlinico Gemelli avrebbe dovuto andare in Vaticano. Quello che non mi spiego è che cosa c’entrasse il Cile”.

Il Cile, all’epoca, già in piena era Pinochet.

Ma questo combacia con il contenuto di quanto il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermò il 21 maggio 1978 durante il Consiglio dei ministri e riportato nel verbale pubblicato, a 43 anni di distanza, da Miguel Gotor in una intervista a repubblica.it: “Un’ultima osservazione [intendo fare]: noi abbiamo fatto molto di più di quello che è apparso per liberare Moro (attività Gheddafi-Arafat) anche con trovate particolari con denaro e anche con proposte di scambi in altri Paesi (Cile). Il rimprovero ai socialisti non è quello di avere cercato una strada ma di averla pubblicizzata”.

Secondo Andreotti alludeva a uno scambio di prigionieri. “Credo che il riferimento – ha detto nell’intervista – sia al tentativo di liberare un prigioniero politico cileno rinchiuso nelle carceri del regime di Pinochet avviando così uno scambio di ostaggi come avvenne nel 1973 fra Breznev e Pinochet”.

Oggi possiamo dire che fu Corghi a intavolare quella trattativa con il Paese Sudamericano.
Altra coincidenza è che don Fabio Fabbri ha parlato dell’ultima prigione di Moro solo dopo che Corghi (classe 1920, partigiano bianco) è morto a 96 anni nell’ottobre 2017.

È di due mesi dopo, 6 dicembre del 2017, infatti la deposizione di monsignor Fabbri (subito secretata) davanti agli investigatori della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, don Fabio Fabbri afferma: “Voglio riferire un aspetto su cui mi riferì Curioni. Nei risvolti dei pantaloni dell’on. Moro al momento del ritrovamento del
suo cadavere, fu rinvenuto del terriccio che io so essere del terriccio riconducibile ad una cantina di un’ambasciata che all’epoca trovava sede nei pressi di via Caetani. Ambasciata attualmente non più attiva”.

Secondo la ricostruzione basata su riscontri delle fonti diplomatiche dell’epoca, pubblicata nel libro di cui sono coautore insieme a Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro 2, si trattava della cantina dell’allora residenza dell’ambasciatore del Cile, presso la Santa Sede.

Corghi era stato da giovane un partigiano bianco e portalettere di fiducia di Dossetti al Cln, nel dopoguerra entra nella direzione nazionale dell’Azione Cattolica per poi impegnarsi nella Dc, partito da cui uscirà nel 1968 su posizioni di contestazione radicale. Amico del cardinal Pignedoli, originario di Felina, conosciuto durante il conflitto, nel 1943. Il porporato, vicinissimo a Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI. Con un altro emiliano illustre, Ermanno Gorrieri, Corghi tesse le fila di una rete di resistenza atlantica in chiave anti-sovietica, la base della rete che conosceremo negli anni Novanta con il nome Stay Behind.

Maestro di Castagnetti e Bonferroni.

Corghi divenne in seguito un esperto di America Latina sulla quale ha scritto numerosi saggi con particolare attenzione ai problemi dello sviluppo post conciliare della Chiesa e delle ribellioni a “sinistra” della Dc. Fu inviato dal Vaticano a Cuba. Fu grazie la lui che venne liberato il regista francese Regis Debray.

Ebbe fortissimi rapporti con il Cile di Salvador Allende, a quello che aveva ribattezzato “nuovo Cile”, cui aveva dedicato un libro pubblicato da Feltrinelli nel giugno del 1973, pochi mesi prima del golpe militare di Pinochet. Ma Corghi continuerà a seguire le vicende del Cile anche dopo il golpe e per conto anche dell’ex sindaco di Firenze La Pira che aveva accompagnato nel Paese sudamericano per la cosiddetta “Operazione verità” voluta da Allende .

È emerso solo relativamente di recente, dagli archivi della Stasi (il servizio segreto della ex Ddr) nel 2005, che il Cile (con il Sudafrica) era la nazione in cui la Stasi aveva la maggiore penetrazione al mondo, fino agli anni ’90. Così come sappiamo solo oggi sappiamo che Salvator Allende era strettamente supportato ma anche monitorato dalla Stasi.

E che la rete di Markus Wolf (“Il Lupo”), che in Europa controllava il terrorismo palestinese e la Rote Armee Frackion, rimase nel Paese, sudamericano anche dopo il golpe militare di Pinochet. Tanto che Erich Honecker, capo della Ddr dal 1971, in fuga da Berlino Est dopo la caduta del Muro (1989), trovò rifugio proprio in Cile, dove lo aveva preceduto la moglie e dove morì nel 1994, con Pinochet ancora al potere.

Nelle testimonianze rese alla Commissione Moro 2 il 31 maggio e il 7 giugno 2017 dal professor Gaetano Lettieri, figlio di Nicola Lettieri, sottosegretario al ministero dell’Interno, responsabile dell’unità di crisi per la ricerca di Aldo Moro, ha riferito che nei dialoghi in famiglia, sia pure senza particolari esplicativi, il padre si riferì alla prigione di Moro con questa frase: “Ci stavamo seduti sopra”. E in effetti Palazzo Ruggeri si trova sul corso Vittorio Emanuele vicinissimo a piazza del Gesù, sede della Dc.

Via Caetani è una traversa di via delle Botteghe Oscure che si trova in senso opposto rispetto alla direzione che porta a piazza del Gesù e fu scelta perché verosimilmente molto vicina all’ultima prigione e al luogo dell’esecuzione, e immediatamente raggiungibile, senza particolari rischi, per gli assassini. Basta girare l’angolo e percorrere non più di centocinquanta metri.

Ma monsignor Fabbri aggiunge oggi anche un altro particolare: “Moro , mi disse Curioni, era stato vestito di tutto punto, perché stava per essere liberato, proprio quel 9 maggio. Così sapevano Curioni e il Vaticano”.

Insomma, sembra proprio che il destino di Aldo Moro non fosse stato “predestinato” fin dall’inizio. Cosa sia accaduto alla fine, nelle ultime ore, dipende da chi effettivamente lo ha ucciso. Perché la versione dei fatti rese dai brigatisti anche sull’assassinio è lacunosa e contraddittoria rispetto ai nuovi risultati d’indagine che sono stati possibili grazie ai nuovi metodi della polizia scientifica, agli accertamenti del Ris dei Carabinieri, alla perizia balistica svolta – solo nel 2016 – sull’arma che (dopo i primi colpi della mitraglietta Skorpion) lo fece morire con una lenta agonia (non una morte sul colpo, ma quasi un’ora di lento dissanguamento) . La perizia balistica su quell’arma risale solo al 2016, cinque anni fa. Si tratta di una PKK, volgarmente nota come P38.

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