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Ddl Zan, la libertà di esser sé stessi si può definire per legge?

Di Angelo Lucarella

Dare un senso giuridico chiaro ad una proposta di legge come quella in esame, pur basata su nobili intenzioni, è imprescindibile poiché, diversamente, si rischia di generare distorsioni di sistema e cortocircuiti nell’ordinamento

Il dibattito pubblico degli ultimi giorni si è acceso particolarmente dopo che l’artista Fedez ha esternato il proprio pensiero in merito alla questione relativa al “ddl Zan” in esame parlamentare. Che la libertà di pensiero sia inviolabile ce lo ricorda la Costituzione italiana con l’art. 21 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” salvo i limiti sempre enunciati nella nostra carta fondamentale e come per legge.
Quindi al netto di ciò rimarrebbe ai fatti se tra Fedez e la Rai vi fosse un rapporto contrattuale che implicasse e perimetrasse, al contempo, il “come” intervenire piuttosto che sul “cosa”.

La questione del rapporto contrattuale non attiene, per ora, a quanto si cerca di analizzare. Di sicuro l’artista, discutibilmente o meno, accende fortemente i riflettori almeno su tre cose tutte tra loro legate: 1) la necessità di dibattito politico serio in questo Paese; 2) la percezione sociale rispetto alla percezione social sulla questione; 3) i diritti civili prescindono dal colore politico e figuriamoci da quello artistico (ammesso che se ne possa attribuire uno aprioristicamente).

Con tutta onestà credo che Fedez, tralasciando per un attimo se abbia fatto bene o male con ciò che ha detto, mette a nudo l’attualità rispetto alla contemporaneità. A primo acchito potrebbero sembrare due concetti identici ma così non è: il primo attiene a ciò che è in atto, l’altro invece riguarda l’insieme dei fenomeni culturali dell’epoca presente.

Quindi, deduzione vuole, che si semplifichi il tutto in una diversa chiave di lettura: il ddl Zan, in quanto attuale, prescinde dall’insieme dei fenomeni culturali che si interessano della tematica riguardante l’omofobia, le disabilità, ecc. benché risulti titolato “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.

Il motivo credo sia abbastanza intuibile: non c’è bisogno di una legge che, insinuandosi tra le debolezze sociali dell’attualità, in buona sostanza, iberni i processi culturali legati all’evoluzione della comunità laddove quest’ultima, al netto dei delinquenti, dei razzisti, ecc., ha il proprio corso nel tempo, nell’epoche e nella storia e che quindi non può e non deve essere suscettibile di limitazione alcuna salvo, appunto, ciò che deriva dal dettato costituzionale in termini di concretamente fattibile.

Un esempio su tutti: un conto è sanzionare ed incarcerare un delinquente-aggressore, altro conto è non dotare la società di coscienza critico-evolutiva rispetto ai temi facendolo per legge. Ciò che in questo Paese manca è sotto gli occhi di tutti ormai: una classe politica incapace di confrontarsi con serietà sulle questioni senza cedere ai peccaminosi gradimenti dei social pur di assecondare una fetta di votanti inconsapevoli. È questo un ruolo essenziale che deve esercitare la politica e prima di tutto il Parlamento: occorre sensibilità alla persuasione e non il contrario.

Accade, infatti, che c’è una sinistra del tutto ancorata ideologicamente sul blocco normativo (senza aprirsi all’ascolto per limare eventuali errori di sorta), mentre la destra continua a fuggire dal coinvolgimento culturale sui diritti civili. Nel mezzo rimangono schiacciate le componenti più democratiche e liberali del Paese che, prima di tutto, vorrebbero illuminare il campo da gioco per confrontarsi seriamente sul tema: fare una legge in una materia così delicata è una cosa talmente importante che non si può cedere alla tentazione di dare regole alla società senza una base allargatissima in termini di convergenza. Una sorta di Costituente.

In verità la Costituzione, come già accennato, afferma il totale riconoscimento dell’uguaglianza così come fa anche la Convenzione Europea dei diritti umani e, altrettanto, enuncia la Dichiarazione Universale dei diritti Dell’Uomo delle Nazioni Unite. Perciò, tornando al titolo del ddl Zan ed al rispettivo contenuto, occorre affermare che non c’è bisogno di normare ciò che è già principio universale perché, diversamente, si rischia di far passare il messaggio sociale che le Costituzioni e le Carte fondamentali di massima ispirazione umana non contino alcunché.

La cosa che più colpisce, d’altronde, è che nella proposta di legge si consideri essenziale legiferare su ciò che le persone debbano intendere in termini di definizione (vedasi l’articolo 1 ad esempio).
Chi è lo Stato per definirmi o definire gli altri? Per di più se si considera che la materia su cui si vorrebbe normare apparterrebbe, prevalentemente, a c.d. diritti indisponibili, allora, il dato è presto che tratto. Basterebbe anche considerare l’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo per ricordare a noi stessi che esiste il c.d. “DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE” in base al quale “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

Ora, fatta questa premessa di fondo, spero non ci sia bisogno di specificare che:

– lungi da chi scrive questa breve analisi creare dibattito sterile, polemica o critica di altro genere che non sia la ricerca del senso giuridico unito al buon senso sul tema;
– se c’è bisogno di intervenire e, quindi, di legiferare su una questione di allarme sociale è obbligo, dovere e funzione di ogni individuo (quindi tutti noi) contribuire alle sorti della Repubblica per rimuovere gli ostacoli che limitano effettivamente la parità e l’uguaglianza. Così prevede, espressamente, l’art. 3 della Costituzione italiana.

Allontaniamoci tutti, per favore, dal divisivo linguaggio dei tempi che corrono a discapito dell’unico che conta e che è utile affinché possano generarsi leggi comprensibili al popolo e non solo all’élite (della serie “giusto per fare una legge” più volte accaduto nella storia democratica del Paese).

Con tutto il rispetto e la delicatezza possibile in ordine al tema legato all’ormai famoso disegno di legge Zan (in esame prossimo al Senato), oggettivamente ci sono diversi elementi giuridici su cui è doveroso soffermarsi di più: prima di tutto le nuove definizioni che si vorrebbero introdurre nel sistema normativo (vedasi appunto l’art. 1 della proposta di legge).

Da mero appassionato del diritto la prima regola che impongo a me stesso (e che ci insegnano i Padri del diritto oltreché i Padri della filosofia politica) è cercare la radice delle cose tentando l’immedesimazione sia nella persona che potrebbe essere offesa sia in quella destinataria della eventuale incriminazione di legge.

La legge serve, infatti, a bilanciare. C’è indubbiamente che se una persona è razzista, omofoba, ecc. vi è poco da fare: è un problema anzitutto socio-educativo.

La domanda spontanea è, tuttavia, se sul piano giuridico (che decreta la politica con le leggi) tali comportamenti vanno fatti rientrare nel sistema rieducativo delle pene partendo dal considerali, eventualmente, anche come espressione di squilibri psicologici oppure vanno considerati come una sorta di disallineamenti culturali del tempo oppure ancora come meri atti delinquenziali e basta? Dove sta il dibattito aperto e franco su questi gangli della questione?

Sinceramente però, forse (e molto probabilmente) per limite od incapacità del sottoscritto a decifrare i termini utilizzati nel testo (che, si badi bene, avrebbe la finalità di “prevenzione del pericolo discriminatorio”), non si comprende come si possa imporre per legge il come intendere l’IO intimamente (vedasi letteratura Freud, Klein, Andreoli, ecc. giusto per citarne qualcuno) ed esteriormente parlando: e ciò a prescindere dall’orientamento sessuale, ecc.

Non essendo un esperto della questione, ma per quel pò che mi compete approfondire (ovvero come interpretare una norma), non è riscontrabile alcuna base socio-apprendibile e di visione di Paese alla base di questa scelta legislativa (salvo alcune modifiche al sistema penale): il senso giuridico, ammesso che se ne ricavi uno, come viene posto nell’ordinamento tenuto conto che quest’ultima parola (cioè ordinamento) sta ad intendere propriamente “mettere ordine”?

Bene, se una norma non riesce a mettere ordine (bensì arricchisce la confusione soprattutto partendo dai termini) come si potrà sperare nell’efficienza e nell’effettività nella vita reale della stessa?
Basti pensare alla parola “genere” utilizzata per definire come essa sia, per i parlamentari della proposta di legge, implicante una manifestazione esteriore allorquando, invece, basterebbe consultarne l’etimologia: essa è legata alla radice ed all’interiorità della persona e cioè al sentire più intimo di sé stessi (quindi a prescindere da come ci si esprime all’esterno).

Per non parlare della definizione di orientamento sessuale (indicato nel testo Zan + altri): il termine cardine utilizzato per perimetrare sé stessi, per i proponenti della legge, è la sola attrazione (appunto) sessuale od affettiva.

Si badi bene che la scelta dei termini di una futura legge non è un gioco. Una persona è libera di stabilire il proprio orientamento come ritiene: che sia attratta o meno sul piano delle pulsioni o dell’affezione (gli anaffettivi ad esempio) ciò non deve incidere sul come l’IO voglia vivere sé stesso. Essere a favore di una riforma non significa accettarne supinamente una qualsiasi.

Non si abdichi, perciò, il dibattito parlamentare alle sirene dell’approssimazione pur di far ingolosire sempre più i social: i voti passano, ma le regole restano. Inasprire le pene è un conto e non ci sarà nessuno che non sarà a favore del vero contrasto ai fenomeni di discriminazione, ma altro conto è definire per legge chi e cosa una persona debba essere.

Dare un senso giuridico chiaro ad una proposta di legge come quella in esame, pur basata su nobili intenzioni, è imprescindibile poiché, diversamente, si rischia di generare distorsioni di sistema e cortocircuiti nell’ordinamento. E si sa chi ne paga alla fine.



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