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Se gli account dei diplomatici cinesi sono “dopati” coi bot

Il successo dei profili social legati al governo cinese è artificiale. Un’inchiesta di AP e Oxford rivela l’estensione dell’operazione di influenza estera online congegnata da Pechino. Anatomia di una macchina propagandistica del Ventunesimo secolo

Nel suo discorso del 2013, poco dopo aver preso il potere, il presidente cinese Xi Jinping ha definito internet il principale “campo di battaglia” per l’opinione pubblica. Dall’inizio della sua presidenza il Partito-stato ha consolidato la sua presa sui media locali, social inclusi, raggruppandoli sotto l’egida di un’organizzazione-ombrello nota come il Dipartimento centrale di propaganda. Chiaramente l’approccio non sortisce alcun effetto all’infuori della Muraglia, dove media e social solitamente rispondono a logiche democratiche e liberali. Perciò per esportare la propria influenza all’estero il governo cinese deve ricorrere a qualche trucchetto.

Negli ultimi due anni circa tre quarti dei 270 ambasciatori e diplomatici cinesi, dislocati in 126 Paesi, sono sbarcati su Twitter e Facebook. Entrambi i social sono banditi in Cina; gli account istituzionali dei diplomatici cinesi all’estero servono appunto per condividere notizie dei media cinesi e spingere narrative pro-Pechino nell’infosfera globale. Eccetto che una parte molto consistente degli account che ricondividono i loro post sono fasulli.

Un’inchiesta di Associated Press e dell’Oxford Internet Institute ha portato alla luce 26.879 account fittizi, che agendo in maniera coordinata amplificavano la portata dei contenuti condivisi dai diplomatici, ricondivisi quasi 200.000 volte prima che una parte di essi fossero bloccati. Questi account, scrive AP, erano talvolta responsabili per di più della metà delle condivisioni ricevute dagli account diplomatici.

I profili social combinati dei diplomatici e dei media cinesi contano 449 account su Twitter e Facebook, che tra giugno 2020 e febbraio 2021 hanno postato 950.000 volte. L’analisi di AP svela che questi contenuti hanno ricevuto complessivamente 350 milioni di like, più 27 milioni tra condivisioni e commenti. Gli utenti più citati sono il ministro degli esteri cinese Wang Yi e le testate-megafono di Pechino come People’s Daily, CGTN, China Daily e Xinhua. Nei sette mesi dell’indagine sono stati identificati circa 151.000 “superfan” dei messaggi del Partito-stato, ma solo l’un per cento era responsabile per metà delle condivisioni (360.000).

Gli algoritmi dei social in questione sono costruiti per amplificare la diffusione dei post che ricevono più interazioni. Così una folla di bot apparentemente piccola riesce a far sì che il contenuto in questione possa raggiungere decine di milioni di utenti ignari. E come ogni operazione di propaganda ben congegnata, i messaggi chiave delle autorità cinesi sono rilanciati in maniera costante e amplificata.

“È un movimento sismico, lento ma gigantesco. Se solo lo dirigi un pochino può avere un impatto immenso nel tempo”, ha detto Timothy Graham della Queensland University of Technology ad AP. E considerato che i media e le piattaforme occidentali non hanno accesso all’infosfera cinese, l’operazione di manipolazione è unidirezionale, un’estensione globale della propaganda nazionale cinese.

Si tratta di una vera e propria macchina propagandistica automatizzata. I bot scoperti dall’inchiesta lavoravano con contenuti in inglese, mandarino, spagnolo arabo, hindi, italiano, francese, russo, coreano, urdu, portoghese, thailandese, svedese, giapponese, turco, tedesco e tamil. L’operazione si avvale anche di gruppi di persone, definite “armate digitali” nei documenti di bilancio del Dipartimento di propaganda visti da AP, con il compito di dirigere e fomentare la conversazione online nella direzione voluta dalle autorità. Addirittura, le università cinesi pubblicano annunci di reclutamento di “commentatori online” e “giovani volontari civili” contraddistinti da un “amore per la madrepatria”.

Twitter e Facebook sono a conoscenza del problema. Entrambe le piattaforme hanno iniziato a contrassegnare gli account istituzionali e alcune testate, identificandoli come affiliati al governo di riferimento. In seguito alle rivelazioni di AP e Oxford, Twitter ha sospeso una parte dell’armata digitale cinese dai suoi servizi – un inizio, ma non abbastanza per limitare l’immensa portata dell’operazione di influenza globale a opera del Partito-stato.

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