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Export militare? Ecco perché dico sì a una riforma. Scrive il gen. Tricarico

Durante un webinar organizzato da Formiche, il sottosegretario Mulè ha auspicato una riflessione per aggiornare la legge sull’export di armamenti. Ecco perché, dopo oltre 30 anni, la legge 185/90 è difficilmente rapportabile agli odierni scenari di crisi interni e internazionali. L’intervento del generale Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare oggi presidente della Fondazione Icsa

Apportare nel nostro Paese modifiche alla normativa che regola l’esportazione di materiali della difesa significa passare attraverso una serie di provvedimenti di diversa natura e incardinamento istituzionale accomunati tutti da un elevato indice di difficoltà quando non del tutto utopici.

Si tratta di percorrere a ritroso il percorso autorizzativo e tentare di bonificarlo dalle numerose trappole in cui si incagliano regolarmente ormai quasi tutte le iniziative commerciali della nostra industria del settore.

Cominciando dai soggetti istituzionali più ostici, la giustizia, il grande malato italiano, ha più di una responsabilità di cui rendere conto a cominciare dal vero e proprio accanimento di alcuni magistrati in preda a furore moralizzatore o ad altre pulsioni.

Su tutti il caso di Giuseppe Orsi, all’epoca amministratore delegato di Finmeccanica, messo in stato di detenzione, tenuto per anni sulla graticola giudiziaria e mediatica, abbandonato anche dal ministro della Giustizia di turno alle improponibili pretese indiane e alla bizzarria della giustizia, salvo poi dover registrare la sua totale estraneità ai fatti contestati. E con gli immaginabili ma dai più poco percepiti danni a vantaggio della concorrenza già di per se spesso spregiudicata.

La perla di oggi è il rinvio a giudizio di due funzionari della Farnesina, ancora in servizio attivo, a suo tempo responsabili dell’ufficio Uama, quello che materialmente rilascia le licenze di esportazione di materiali della difesa, accusati ambedue di aver contravvenuto ai disposti della legge che regola il settore; per certo finirà in una bolla di sapone ma intanto il comparto rimarrà ostacolato a lungo dalle comprensibili prudenze di chi si sente nel mirino della giustizia.

La seconda macro anomalia italiana ha radici profonde nel mondo della politica e delle sue incarnazioni istituzionali, con la politica estera per esempio ostaggio di ogni fatto che con un minimo di risonanza mediatica possa insidiare il meccanismo del consenso.

Fuor di metafora e calandoci ancora una volta nell’attualità, come è possibile dopo tutto quello che è successo con l’Egitto che anche esponenti di vertice di importanti partiti politici possano promuovere il riconoscimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, senza aver letto un solo documento sui capi di imputazione per la sua condizione di detenuto, ma sopratutto continuando a essere distratti rispetto agli oltre 20.000 detenuti in attesa di giudizio definitivo nelle nostre carceri, in procedimenti in cui verosimilmente alcuni di essi risulteranno innocenti?

Insomma una politica estera che anziché essere figlia, come in tutti i Paesi civili, dei soli interessi nazionali, è una sorta ostaggio che passa di mano in mano dal ricattatore di turno, dagli specifici casi di dolore (che andrebbero però trattati in parallelo con la determinazione necessaria), agli exploit televisivi del santone di turno difensore dei diritti umani o alle manifestazioni di piazza di questo o quel movimento di opinione.

E poi la madre di tutte le controversie, la legge 185/90, quella appunto che regola la materia e a cui andrebbe messa mano con tutta la delicatezza ma anche con tutto il senso dello Stato necessari.

Oltre 30 anni di vigenza la hanno resa difficilmente rapportabile agli odierni scenari di crisi interni e internazionali, nessuno dei quali è praticamente risparmiato dal dettato normativo italiano, sopratutto se applicato in maniera ottusa o da funzionari la cui firma potrebbe aprir loro le porte del tribunale.

La materia non può certamente essere liquidata con pochi pensieri in libertà, va aperta una riflessione profonda ed estesa a chiunque ritenga di aver qualcosa da dire, ponendo in preventivo fin d’ora aspre contrapposizioni in cui andrebbero, sopratutto da parte dei decisori istituzionali e della politica, messe da parte ipocrisia, neghittosità e dilettantismo tenendo sempre presente che l’industria di Stato o la si sostiene o la si riconverte, non si può continuare a ostacolarla tenendo indefinitamente due piedi in una scarpa.

Un lavoro accurato dunque e presumibilmente lungo, in attesa del compimento del quale qualche obiettivo a portata di mano lo si deve poter cogliere.

Per esempio non si vedono ostacoli significativi a dar piena attuazione alla procedura “G to G”, quella che consente al governo di sostituirsi all’industria nella sottoscrizione di contratti commerciali, formula spesso esplicitamente richiesta da alcuni Paesi e di indubbia efficacia complessiva.

Andrebbe poi elevato il livello delle decisioni sulla esportazioni sottraendolo alla modesta collocazione in un ufficio della Farnesina, nel perenne mirino, come detto, del magistrato di turno. In altre parole andrebbe riesumato il consesso dei ministri – il Cisd – previsto inizialmente dalla legge 185 e poi improvvidamente e senza valida ragione cassato dalla stessa.

Da ultimo, sempre che ciò non provochi un vespaio, andrebbero individuati tutti i possibili Paesi con cui, alla luce di interessi e valori condivisi, si possano stipulare accordi di cooperazione nei settori della sicurezza e della difesa. Con ciò creando un canale sì privilegiato per le iniziative commerciali con quei Paesi, ma allo stesso tempo con la garanzia della affidabilità del Paese stesso fornita dalla decisione governativa e dal conseguente dibattito parlamentare di ratifica.

Il possibile successivo venir meno della fiducia per qualche contingenza dovrebbe essere validato nel percorso inverso da governo e parlamento, a evitare il ripensamento in solitario di qualche ministro troppo attento al richiamo della foresta anziché al senso dello Stato cui ha giurato fedeltà.


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