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Così Londra si muove nel G7 tra Usa e Ue. L’analisi di Dassù

Pubblichiamo una sintesi del discorso di Marta Dassù, direttore di Aspenia e Senior Advisor dell’Aspen Institute, al convegno su “Brexit e la politica estera europea” organizzato dal Brexit Institute della Università di Dublino

Per l’Unione europea, Brexit è stata una perdita secca in termini geopolitici. Ricostruire una relazione con Londra sulla politica estera e di sicurezza è una priorità per l’Unione europea. Lo stesso vale tuttavia per il Regno Unito. La tesi del governo Johnson è che Londra possa fare a meno di una relazione con l’Unione europea in materia di sicurezza. A garantire i rapporti con l’Europa basterà la Nato,  specie in questa fase di rilancio dei rapporti transatlantici. O basterà il G7. Il Regno Unito, non a caso, non ha voluto includere il capitolo politica estera e difesa nell’accordo con l’Ue del dicembre scorso. E ha omesso riferimenti alla cooperazione con l’Europa nella “Integrated review” del marzo scorso sulla strategia internazionale della “Global Britain”.

Ma l’approccio Nato più G7 presenta tre punti deboli.

Primo: la Nato e l’Unione europea (sono 21 i Paesi Ue che fanno parte dell’Alleanza atlantica) collaborano in modo operativo dall’intervento russo del 2014 in Ucraina per rispondere alle diverse minacce ibride – e questa cooperazione è destinata ad aumentare, con una divisione dei compiti anche sul fianco Sud della Nato, il Mediterraneo. Proprio Londra, come stato membro dell’Ue, aveva spinto in questo senso. Sarebbe abbastanza paradossale, quindi, se oggi non riconoscesse il contributo dell’Ue alla sicurezza europea, per esempio nel settore cyber, nell’antiterrorismo, nel contrasto al money laundering e ai traffici illegali.

Secondo: gli strumenti – specie economici – per rispondere alle minacce ibride nell’area euroatlantica sono in parte nelle mani dell’Unione europea. Basti pensare alle sanzioni: il governo britannico, nella sua “Integrated Review”, evidenzia la possibile flessibilità di “sanzioni autonome” ma è chiaro che l’efficacia delle sanzioni dipende dal coordinamento tra l’insieme dei Paesi europei (e degli Stati Uniti).

Terzo: l’amministrazione Biden, a differenza di quella Trump, ritiene importante la partnership con l’Unione europea. Il rischio, per il Regno Unito, è naturalmente quello di restare ai margini di decisioni chiave Usa-Ue al crocevia tra economia e geopolitica. La risposta è lo sforzo britannico per inquadrare tali discussioni nel contesto del G7, o di un G7 allargato alle democrazie asiatiche, per esempio sulle questioni tecnologiche. Tuttavia, i rapporti diretti tra gli Stati Uniti e l’Unione europea saranno sempre più importanti in questo settore, soprattutto se andrà avanti la proposta europea di istituire un Consiglio transatlantico per il commercio e la tecnologia.

Concentrarsi solo sulla Nato e sul G7, quindi, potrebbe non essere sufficiente per tutelare gli interessi britannici. Che coincidono largamente con quelli dell’Europa continentale: non c’è Brexit possibile dalla geografia.

Londra tenterà di combinare alla Nato lo sviluppo di rapporti con i principali Paesi europei, utilizzando in modo flessibile il formato E3 (Regno Unito, Francia, Germania) nato dai negoziati sull’Iran. È un formato che all’Italia non piace, naturalmente. E resteranno in vita gli accordi bilaterali sulla difesa. Non solo con Parigi e Londra ma in questo caso anche con l’Italia. La nostra industria della difesa – Leonardo, con la sua presenza sul mercato britannico – potrebbe in effetti vedere anche alcune opportunità nella Brexit, visto l’importante aumento della spesa militare del Regno Unito.

Ma ci sono dei limiti alle potenzialità del formato E3. Non solo perché aliena gli altri Stati membri dell’Unione europea. Ma anche perché è molto difficile pensare che la politica estera europea possa essere interamente affidata – per quanto riguarda il processo decisionale – all’E3, rimandando parte dell’implementazione agli strumenti economici dell’Unione europea.

Se anche il Regno Unito post-Brexit ha in realtà interesse a cooperare con l’Unione europea in materia di sicurezza, diventano possibili intese settoriali: un primo passo in questo senso è l’accordo appena raggiunto sullo scambio di informazioni. Ma conterà la ricostruzione della fiducia fra le due parti e soprattutto una scelta politica di fondo: l’Europa dovrà riconoscere che in materia di sicurezza il Regno Unito non può essere trattata semplicemente come un Paese “terzo” fra gli altri. Sono necessari accordi specifici, anche per l’accesso al Fondo europeo di difesa.

Chiusa la fase delle recriminazioni reciproche, riaprire il capitolo sicurezza avrebbe senso sia per l’Europa che per il Regno Unito. Gli interessi di fondo coincidono, così come la valutazione dei rischi in una fase internazionale segnata dalla nuova assertività della Russia e dalla competizione con la Cina. Alla fine, le conclusioni della “Integrated Review” britannica e dello “Strategic Compass” che l’Unione europea sta elaborando potrebbero essere convergenti.


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