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Perché la questione di Hamas non è risolta

La “questione di Hamas” non sarà risolta sino a quando non ci sarà democrazia liberale in Israele, i Palestinesi non avranno un loro Stato e Gerusalemme non avrà uno status internazionale, al di fuori sia dello Stato ebraico e palestinese. L’opinione di Giuseppe Pennisi

Al termine dell’ultimo (per ora) conflitto armato, il Primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha affermato che la “questione di Hamas” è risolta poiché aviazione ed esercito hanno dimostrato di avere la capacità di annientare i razzi che dalla striscia di Gaza colpiscono la parte meridionale dello Stato ebraico.
Avendo conosciuto a fondo quella regione, credo che si sbagli. Me lo ha confermato il primo di una serie di seminari organizzati dall’European University Institute (EUI) di Fiesole e dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) e la lettura della stampa americana, in particolare del New York Times – un tempo allineato sulle posizioni di Israele- che ha preso nettamente le distanze dallo Stato ormai visto come una democrazia illiberale, una lettura quasi sancita dagli “accordi di Abramo” non per caso conclusi con Stati totalitari (come Arabia Saudita e gli Emirati). Tanto il New York Times quanto il primo seminario EUI-IAU hanno dato voce a giovani intellettuali palestinesi, colti e parte di una rete mondiale che documentano come in Israele e nei territori occupati si applichi un’apartheid peggiore di quella esistente nei momenti più bui della Repubblica del Sud Africa. Soprattutto, ora non si è più tacciati di antisemitismo se si parla delle violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, nonché dei crimini di guerra commessi da Israele guidato da Benjamin Netanyahu da dodici anni.

La “questione di Hamas” non sarà risolta sino a quando non ci sarà democrazia liberale in Israele, i Palestinesi non avranno un loro Stato e Gerusalemme, città sacra a tre religioni non ad una sola, non avrà uno status internazionale, al di fuori sia dello Stato ebraico e palestinese.

Hamas è un movimento politico di ispirazione religiosa che controlla di fatto – anche se non completamente – la Striscia di Gaza: gestisce scuole e ospedali e possiede un’ala armata, le brigate al-Qassam, i cui membri lanciano razzi contro Israele e combattono l’esercito israeliano. Hamas ha vinto le elezioni legislative palestinesi nel 2006 e dall’anno successivo ha cominciato a governare la Striscia di Gaza dove ha messo in atto molti principi della legge islamica così come nello Stato di Israele si applicano i principi della legge ebraica. Ad esempio, a Gaza Hamas ha vietato di consumare alcolici e ha imposto parecchie limitazioni alle donne, relative all’abbigliamento e al divieto a girare accompagnate da uomini diversi dai propri parenti più stretti o dal proprio marito. Per assicurarsi che queste regole vengano rispettate, Hamas possiede un apposito corpo di “polizia morale”. La Striscia di Gaza è, in pratica, una prigione dove è difficile accedere e da dove è difficile uscire: l’unica frontiera è quella con l’Egitto, i controlli di accesso con Israele sono severissimi perché tutti, anche i bambini, sono considerati “terroristi”. Nelle graduatorie delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale, Gaza è contrassegnata come una delle zone più povere del mondo. Non si potrebbe sopravvivere senza l’aiuto internazionale ed anche con quello si è ai margini della sussistenza. In tali condizioni, è quasi naturale che un’organizzazione umanitaria diventi politica e si estremizzi.

Israele dovrebbe ricordare le propria storia e la diaspora degli ebrei per oltre un millennio. Nel 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite (che allora contava 52 Paesi membri), dopo sei mesi di lavoro da parte dell’Unscop (United Nations Special Committee on Palestine), il 29 novembre approvò la Risoluzione n. 181, con 33 voti a favore, 13 contro e 10 astenuti, che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico (sul 56,4% del territorio e con una popolazione di 500 000 ebrei e 400 000 arabi) e di uno Stato arabo (sul 42,8% del territorio e con una popolazione di 800 000 arabi e 10 000 ebrei). La città di Gerusalemme e i suoi dintorni (il rimanente 0,8% del territorio), con i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, sarebbero dovuti diventare una zona separata sotto l’amministrazione dell’Onu. Secondo il piano, lo Stato ebraico avrebbe compreso tre sezioni principali, collegate da incroci extraterritoriali; lo Stato arabo avrebbe avuto anche un’exclave a Giaffa. Nella sua relazione l’Unscop si pose il problema di come accontentare entrambe le fazioni, giungendo alla conclusione che soddisfare le pur motivate richieste di entrambi era “manifestamente impossibile”, ma che era anche “indifendibile” accettare di appoggiare solo una delle due posizioni. Nel decidere su come suddividere il territorio considerò, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, la necessità di radunare tutte le zone dove i coloni ebrei erano presenti in numero significativo (seppur spesso in minoranza) nel futuro territorio ebraico.

Le reazioni alla risoluzione dell’Onu furono diversificate: la maggior parte degli ebrei, rappresentati ufficialmente dall’Agenzia Ebraica, l’accettarono, pur lamentando la non continuità territoriale tra le varie aree assegnate allo Stato ebraico. Gruppi più estremisti, come l’Irgun e la Banda Stern, la rifiutarono, essendo contrari alla presenza di uno Stato arabo in quella che consideravano “la Grande Israele”, nonché al controllo internazionale di Gerusalemme.

Tra la popolazione araba la proposta fu rifiutata, con diverse motivazioni: alcuni negavano totalmente la possibilità della creazione di uno Stato ebraico; altri criticavano la spartizione del territorio che ritenevano avrebbe chiuso i territori assegnati alla popolazione araba (oltre al fatto che lo Stato arabo non avrebbe avuto sbocchi sul Mar Rosso né sulla principale risorsa idrica della zona, il Mar di Galilea); altri ancora erano contrari che agli ebrei, che allora costituivano una minoranza (un terzo della popolazione totale che possedeva solo il 7% del territorio), fosse assegnata la maggioranza (56%, ma con molte zone desertiche) del territorio (anche se la commissione dell’Onu aveva preso quella decisione in virtù della prevedibile immigrazione di massa. Gli stati arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due Governi.

Si erano previste misure difensive a tutela dello Stato di Israele, tra cui la possibilità di occupare “basi nemiche” poste oltre il confine (per evitare che venissero impiegate per organizzare infiltrazioni all’interno del territorio), e prevedeva la distruzione dei villaggi palestinesi (“setting fire to, blowing up, and planting mines in the debris” ovvero “dar fuoco, far saltare in aria e minare le rovine”) espellendone gli abitanti oltre confine, ove la popolazione fosse stata “difficile da controllare”, situazione che ha portato diversi storici a considerare il piano stesso indirettamente responsabile di massacri e azioni violente contro la popolazione palestinese (seppur non presenti né giustificate esplicitamente dal piano), in un tentativo di pulizia etnica. L’impatto emotivo sull’opinione pubblica del massacro di Deir Yassin, da parte di membri dell’Irgun e della Banda Stern, fu una delle cause principali della fuga degli abitanti nei mesi seguenti.

Il 14 maggio del 1948 venne dichiarata unilateralmente la nascita dello Stato di Israele, un giorno prima che l’Onu stessa, come previsto, ne sancisse la creazione. Ci fu un’immediata rivolta dei palestinesi, schiacciata dalla potenza militare israeliana. Ciò provocò la fuga di 711.000 profughi palestinesi. Se gli israeliani, che hanno conosciuto la diaspora, avessero cercato di accattivarsi il partner più debole garantendogli pari e pieni diritti, sarebbe stato forse possibile una coesistenza pacifica.

C’erano speranze sino agli accordi di Oslo del 1993 ma dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin (Primo Ministro di Israele e Premio Nobel per la Pace 1994) da parte di un estremista ebreo nel 1995, la situazione si è sempre più deteriorata, soprattutto dopo l’avvento al potere della destra oltranzista guidata da Benjamin Netanyahu che ha trasferito la capitale a Gerusalemme ed insediato circa mezzo milione di israeliani in Cisgiordania, ed attuato una politica discriminatoria contro i palestinesi. Le violazioni al diritto internazionale ed agli stessi diritti umani sono quotidiane.

È, però, una strategia miope. La metà della popolazione palestinese ha meno di trent’anni, è istruita, comunica con i social in tutto il mondo. Lo Stato di Israele dovrebbe cercare di venire a patti con questa generazione. Tanto più che la popolazione araba è in rapida crescita e che Stati Uniti ed Europa mostrano segni d’impazienza nei confronti dell’apartheid imposta da una democrazia illiberale che ha sempre più i toni di una satrapia medio-orientale.

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