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Brunetta e i concorsi, il gioco vale la candela. Firmato Hinna

Di Luciano Hinna

Il ministro Brunetta ha ragione a cambiare le regole dei concorsi e porre fine all’assurdo della selezione basata esclusivamente sulla sola conoscenza nozionistica. L’analisi del professor Luciano Hinna, presidente del Consiglio sociale per le Scienze sociali

In occasione della raccolta di scritti a trenta anni dalla pubblicazione del famoso Rapporto Giannini sullo stato della pubblica amministrazione a me toccò il compito di trattare la gestione del personale nei suoi vari aspetti, concorsi ed assunzioni incluse, ed in quella occasione presi ad esempio un concorso per addetti alla carriera prefettizia che si era appena concluso. 6

60mila partecipanti per 68 posti, un concorso durato relativamente poco, tre anni, e costato un patrimonio tra prove scritte e orali, vigilanza, affitto di strutture grandi quanto uno stadio, commissioni esaminatrici, correzioni compiti, valutazione dei titoli, permessi retribuiti e ore di lavoro perse – dal momento che la maggior parte dei partecipanti lavorava già in altre Pa – retribuzione dei commissari esaminatori, costruzione delle graduatorie etc.

Facendo un breve conto approssimato per difetto emergeva che ciascun vincitore, senza considerare il costo degli  accessi agli atti ed i ricorsi che non ci facciamo mancare mai in queste occasioni, ma considerando solo lo stipendio di entrata, ciascuno dei vincitori doveva lavorare circa 800 anni per pagare il costo del concorso. È assurdo, soprattutto perché sono decenni che ci riempiamo la bocca di concetti come efficienza, efficacia ed economicità.

Questo semplice esempio spiega chiaramente quanto mai sia opportuna la riforma dei concorsi proposta dal ministro Brunetta ed in particolare iniziando da coloro da avviare alla carriera dirigenziale per poi proseguire via via per le altre.

Prendiamo questo caso per comprendere meglio come funziona il concorso. Tralasciando il tema programmazione delle assunzioni a monte, che vede la Pa dopo anni di blocco accorgersi improvvisamente che gli mancano medici, insegnanti magistrati e personale in genere e constatare che quelli che ha hanno un’età media assai alta, la prima domanda da porsi è se sia la Pa che sceglie le persone o invece essa è scelta da coloro che vogliono lavorare in Pa?

Interessante la risposta. La seconda domanda da porsi è che motivazioni hanno coloro che scelgono la Pa: hanno la vocazione del civil servant? Che profilo ha chi accetta di essere assunto con concorsi che durano anni, con stipendi spesso fuori mercato, con attese di carriera legate alla sola anzianità, senza meritocrazia e con scarsa reputazione da parte dell’opinione pubblica?

Non è detto che coloro che tentano un concorso siano effettivamente i candidati migliori dal momento che altri comparti economici si sono già aggiudicati, anche perchè più veloci, la prima scelta sul mercato dei neolaureati. La prova di questa affermazione è che gli “open day” di orientamento delle università per i laureandi che stanno finendo gli studi sono sempre affollati da imprese, Pmi e multinazionali che tentano di garantirsi la prima scelta.

Le Pa, invece, tranne rare eccezioni, sono sempre assenti in questo momento di scouting. Ciò significa che la Pa raramente riesce ad inserirsi nella competizione per la prima scelta: non solo non sceglie, ma sceglie anche male tra chi l’ha sceglie.  Allora vale la pena interrogarsi se il sistema dei concorsi di oggi garantisce la scelta migliore per avere una Pa migliore.

Un altro punto critico è costituito delle conoscenze richieste al candidato per partecipare. Nel concorso per potenziali prefetti appena accennato, quindi carriera direttiva, tutti si sarebbero aspettati che venisse richiesta la laurea in giurisprudenza, e invece no: non si sa se per spinta del sindacato o per trascuratezza, è stato inserito il concetto di “equipollenza delle lauree”, e questo spiega i 60mila partecipanti, tra i quali laureati in economia, sociologia, scienze politiche, scienze dell’educazione, psicologia etc speranzosi di prendere l’ultimo treno per Yuma per la dirigenza pubblica.

Per la cronaca i vincitori risultarono ovviamente tutti laureati in giurisprudenza ed uno solo su 68 in scienze politiche, da qui si deduce oltre il costo economico, il costo sociale: non è giusto illudere le persone, costringerle di fatto a studiare come dei pazzi materie mai studiate prima e poi deluderle. Se nessuno si farebbe mai operare da qualcuno che ha una laurea equipollente in medicina allora perché affidare una prefettura ad un economista?

Tutto questo significa che la Pa prima di lanciare un concorso deve avere le idee chiare su che cosa sta cercando evitando di ragionare sempre e solo sui numeri delle assunzioni e sui livelli gerarchici come se fossero tutti intercambiabili, invece di ragionare sulle esigenze, sui profili professionali, il completamento delle mappature delle competenze.

Non facendo programmazione a medio termine, realizzando per troppi anni spending review, di fatto mutilazioni organizzative, e non avendo mai gestito tavole di rimpiazzo la Pa si accorge improvvisamente che mancano profili professionali specifici, ma poi va sul mercato però per acquisire profili generici.

La scelta del ruolo unico, i sistemi di selezione unici per profili diversi si inquadrano in questa cornice: il trionfo dei livelli e dei gradi a scapito della competenza che ovviamente è anche conoscenza ma non solo: è esperienza, attitudine, propensione, caratteristiche personali, e capacità di lavorare in gruppo etc.  Tutte cose che il mondo privato valuta attentamente e che il settore pubblico non considera.

Un altro elemento critico del sistema dei concorsi attuali, al quale il Ministro Brunetta sembra voglia mettere mano, è la modalità di accertamento della conoscenza, elemento necessario ma non sufficiente. Le conoscenze nozionistiche che con il concorso pubblico la Pa cerca di appurare con tempi lunghi e costi enormi in realtà sono state già certificate per i laureati dalle università da dove provengono e se la Pa non si fida, perché sa che non tutte le università sono dello stesso livello ed i programmi non sono tutti uguali, potrebbe assegnare un rating come fanno solo alcun istituzioni di prestigio, pretendere lauree specifiche che ci sono o richiedere votazioni minime in certe materie e voto finale non inferiore a certi standard.

Invece no, la Pa troppo spesso lancia la rete a strascico raccoglie tutto e non seleziona nulla. Nelle nostre Pa ci sono oggi tante persone che si sono laureate a pieni voti anche in ottime università, ma che per partecipare ad un concorso hanno ri-studiato per mesi le stesse materie studiate in precedenza ed in alcuni casi sono state costrette dopo l’assunzione a seguire ancora corsi sulle stesse materie. Overdosi di conoscenze nozionistiche, spreco di energie ed entusiasmo sotto i piedi.

Quante volte dobbiamo ripetere l’esame per prendere la patente ogni volta che serve? Uno spreco che non possiamo più permetterci e allora perché non lasciare tale verifica delle conoscenze alle università, che lo fanno per mestiere, e lasciare invece alle amministrazioni la verifica delle attitudini, delle competenze specifiche, delle predisposizioni, delle caratteristiche personali?

Il ministro Brunetta ha ragione a cambiare le regole. L’assurdo della selezione basata esclusivamente sulla sola conoscenza nozionistiche, sta nel fatto che seguendo questo criterio oggi ciascuno di noi potrebbe essere tranquillamente selezionato per la nazionale di calcio solo conoscendo bene le 17 principali regole, e questo senza distinguere i ruoli -terzino, attaccante o portiere- e senza mai aver dato un calcio ad un pallone. Nella nostra Pa è capitato spesso che qualcuno diventasse dirigente per titoli e concorsi senza aver mai lavorato un giorno. La logica del sapere, saper fare e saper essere si è fermata alla prima stazione.

Nessuno vuol mettere in discussione il concetto di concorso selettivo, ma è la modalità di concorso che va rivista; il settore privato non è che assume per sorteggio: non lo chiama concorso ma fa comunque una selezione molto attenta perché sa che se sbaglia la scelta paga l’azienda in termini organizzativi, in termini di clima aziendale, in termini di risultati economici.

L’assunzione di un dirigente o potenziale dirigente è un investimento e non è un rituale lungo confuso e costoso, ma a differenza del privato, dove chi paga per una errata selezione è l’imprenditore, nella Pa chi paga è il Paese e a volte senza neanche accorgersene è lo stesso dirigente pubblico. Non è giusto e non è corretto eticamente: non abbiamo tante vite lavorative da spendere e sarebbe bene per tutti spenderle al meglio.

La conclusione è che la gestione dei concorsi è una tessera di un mosaico molto più complesso che è la gestione e sviluppo delle risorse umane e non solo amministrazione fatta di presenze, permessi, 104 e rapporti sindacali. La sfida che il ministro ha sul tavolo è modificare i concorsi, gestire una grande mole di assunzioni in tempi brevi e garantire la qualità delle scelte. Non è una cosa semplice; le decisioni di oggi condizioneranno le nostre Pa per i prossimi trenta anni. Non possiamo sbagliare, ma se non cambiamo e subito sbagliamo certamente.

 

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