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Huawei chiama, Biden non risponde. Ecco perché

Lettera del vicepresidente Huawei a Biden: “Disposti a discutere qualsiasi cosa”. Ma Usa e alleati sono pronti a finanziare standard 5G aperti per sostenere l’innovazione e abbassare i prezzi al pubblico

Huawei scrive a Joe Biden con una richiesta: “Parliamo”. Accade sulle colonne di Nikkei Asia: il vicepresidente senior del colosso tecnologico cinese, Vincent Peng, ha inviato una lettera al presidente degli Stati Uniti in occasione del secondo anniversario della decisione del suo predecessore alla Casa Bianca, Donald Trump, di inserire l’azienda di Shenzhen nella lista nera. Una mossa a cui hanno fatto seguito altre, tra cui la stretta sui semiconduttori della taiwanese Tsmc.

“Il governo degli Stati Uniti”, scrive Pen, “ha intrapreso queste azioni perché ritiene che come azienda cinese, Huawei potrebbe essere costretta a lanciare attacchi informatici alle reti di telecomunicazioni americane, oltre a dare a Pechino la disponibilità a impegnarsi in attività di spionaggio negli Stati Uniti”. In una lettera che ha al centro i rischi economici di un eventuale decoupling tra Stati Uniti e Cina e che pone l’accento sull’approccio multilaterale del presidente Biden, il manager sostiene che Huawei sia “presa nel mezzo della rivalità tra due grandi potenze”. E pur di rimettere piede negli Stati Uniti è “open to discussing anything”, ossia disposta a discutere qualsiasi cosa. Persino la concessione in licenza della tecnologia 5G a una società o a un consorzio statunitense.

Ma la proposta di Huawei rischia di essere fuori tempo massimo. Non soltanto perché la lettera non dà risposte alle preoccupazioni dell’intelligence statunitense sulle leggi cinesi che permettono agli organi dello Stato di “fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese” (come si legge nella relazione del Copasir che nel dicembre 2019 ha fatte propri i timori emerse nel mondo anglosassone). E non soltanto perché se davvero Huawei è “presa in mezzo” nello scontro tra Stati Uniti e Cina allora non si spiega perché la diplomazia di Pechino così tanto si adopera all’estero per sostenere le ragioni del colosso tecnologico.

Basti pensare a due casi. Il primo: l’ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua, ha partecipato a un evento Zte a dicembre durante il quale ha usato parole che sembravano quelle di un manager piuttosto che quelle di un diplomatico: “Rigettiamo gli attacchi su 5G, che non può essere politicizzato, non ci sono prove dell’insicurezza né backdoor. Occorre creare un ecosistema per far scegliere in libertà società e cittadini”. Il secondo: la disputa sul 5G è finita al secondo posto di una lista di 14 lamentele che l’ambasciata cinese a Canberra ha presentato al governo australiano nel novembre scorso, assieme alla richiesta di indagine sull’origine del coronavirus e alle prese di posizione su Xinjiang e Hong Kong.

L’offerta rischia di essere fuori tempo massimo anche perché, come raccontato dal Wall Street Journal che cita un recente rapporto firmato Dell’Oro Group, i bandi australiano, statunitense e britannico hanno fatto breccia anche in Europa e altrove. Tanto che il governo degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione europea “stanno prendendo in considerazione il sostegno finanziario e altre misure per stimolare i produttori nazionali di apparecchiature cellulari che cercano di spezzare la morsa dei tre operatori storici sul mercato” (Ericsson e Nokia oltre a Huawei) entro tre o quattro anni. L’equazione occidentale è la seguente: più concorrenza (attraverso standard aperti) uguale più innovazione e minori costi per gli operatori, dunque per i clienti.

“Il Paese che domina il 5G sarà ben piazzato per guidare il settore tecnologico in termini di profitti e talenti negli anni a venire”, conclude il Wall Street Journal. In palio, dunque, c’è il primato tecnologico e l’approccio multilaterale di Biden, opposto a quello unilaterale di Trump, sembra lasciare da parte le aziende cinesi, nonostante gli auspici di Huawei.

E forse non è un caso che nelle stesse ore in cui veniva pubblicata la lettera di Peng l’agenzia Reuters rivelava un memo riservato interno all’azienda in cui il fondatore Ren Zhengfei, ex ufficiale dell’Esercito di liberazione popolare cinese, guardava al futuro dicendo: più investimenti nel software e meno sull’hardware (il fronte più duramente colpito dalle strette americane) per porsi “al di fuori del controllo statunitense” e “avere una maggiore indipendenza e autonomia”.

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