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Come parlare (seriamente) di imposta di successione secondo Nicola Rossi

È possibile, anzi probabile, che anche questa proposta sia null’altro che una “bandierina identitaria”. Tante ne abbiamo viste e tante ne vedremo ancora. Ma diventa a questo punto inevitabile una domanda: l’autore della proposta si è pienamente reso conto di quale identità si manifesti? Il commento di Nicola Rossi, docente a Tor Vergata e membro del Gruppo dei Venti

Quale che sia il punto di vista, la proposta del segretario del Partito democratico relativa ad un inasprimento dell’imposta di successione appare poco meditata. Sotto il profilo della architettura del sistema fiscale, l’attuale governo sembrerebbe aver compreso la necessità di abbandonare la strada così spesso battuta in passato – fatta di interventi episodici, dettati dalle esigenze del momento (o, meglio, dall’ansia di prestazione della politica) – per passare ad una rilettura complessiva del sistema fiscale.

Un sistema – supponendo che l’operazione riesca – in cui ogni elemento non ha vita propria ma contribuisce a creare un insieme che si vorrebbe semplice, trasparente, equo ed orientato alla crescita. In questo quadro l’imposta di successione non rappresenta un’eccezione. È certamente vero che l’Italia rappresenta, sotto questo aspetto, una anomalia ed è altrettanto vero che i trasferimenti mortis causa (o, per quel che vale, le donazioni) sono un canale molto rilevante di perpetuazione ed allargamento delle disuguaglianze. E che quindi non ci sarebbe da scandalizzarsi se – nell’ambito di un complessivo ridisegno del sistema fiscale – trovasse posto anche una ridefinizione dell’imposta di successione (e delle sue basi logiche: in primis, il catasto).

Ma va da sé che in questo caso il gettito addizionale (tutt’altro che risolutivo) dovrebbe, plausibilmente, essere utilizzato per ridurre la pressione fiscale che non solo gravita sugli stessi cespiti che sarebbero oggetto dell’imposta di successione ma che spesso ne colpisce, oltre al valore capitale, anche la rendita. È appena il caso di ricordare che nel 2020 – ripetiamo, nel 2020 – la pressione fiscale è cresciuta in Italia di 7 decimi di punto. C’è qualcuno che pensa che si sarebbe dovuto fare di più? Il fatto che la proposta si limiti all’1% per cento più abbiente della popolazione non attenua minimamente la portata di queste osservazioni. Una imposta di successione può anche essere caratterizzata da un profilo crescente delle aliquote in maniera da gravare in particolare sui patrimoni di maggiori dimensioni, ma quel che rileva è la progressività del sistema fiscale nella sua interezza (e dovremmo dire, per riparare ad uno scivolone dei Padri costituenti, del bilancio pubblico complessivamente inteso).

E che dire poi dell’altro lato della medaglia? Della “dote” per i 18enni meno abbienti? Anche qui la sensazione è che il tempo per riflettere sia mancato e che, di conseguenza, non sia restato altro da fare se non ricorrere all’ennesimo bonus. La “dote”, fin che c’è stata (1975), era quanto veniva attribuito al marito come contributo per gli oneri del matrimonio. Una modalità con cui si definiva una transazione e si declinava dal quel momento in poi ogni responsabilità. Le parole sono pietre: riproporre il termine nel caso dei più giovani espone, come meglio non si potrebbe, la volontà della politica di liberarsi di un problema piuttosto che di affrontarlo come meriterebbe (e con interventi – lo sappiamo bene – assai più dolorosi politicamente).

È possibile, anzi probabile, che anche questa proposta sia – come altre – null’altro che una “bandierina identitaria”. Tante ne abbiamo viste e tante ne vedremo ancora. Ma diventa a questo punto inevitabile una domanda: l’autore della proposta si è pienamente reso conto di quale identità si manifesti attraverso questa proposta?

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