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La parata (militare) di Putin e l’autogol Ue. L’analisi di Savino

Da sempre appuntamento centrale della politica russa, la parata del 9 maggio a Mosca è anche termometro degli umori al Cremlino. Quest’anno Putin non ha fatto cenno al contributo dei Paesi europei nella lotta anti-nazista. Ecco perché nell’analisi di Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)

La parata del 9 maggio è, probabilmente, uno degli appuntamenti annuali centrali della scenografia del sistema di potere della Russia putiniana, assieme all’Assemblea federale e al discorso di fine anno. Vi è una ragione di fondo: la stragrande maggioranza delle famiglie russe ha avuto propri cari che hanno preso parte o sono caduti alla Grande guerra patriottica, termine che in russo designa la Seconda guerra mondiale da dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa.

Questa memoria di “popolo” è forte ed è da sempre molto sentita, anche per gli episodi terribili della guerra, dall’assedio di Leningrado durato quasi 900 giorni alla distruzione delle comunità ebraiche nei territori occupati, passando per le grandi battaglie di Stalingrado e di Kursk, milioni di uomini e donne, di vecchi e bambini sono stati travolti dalla tragedia dell’aggressione nazista e han dovuto combattere per riconquistare il proprio diritto alla vita.

Infatti, la ricorrenza della fine della guerra in Europa in età sovietica non era al centro della narrazione del potere, ma accompagnava semmai gli altri grandi anniversari, il Primo Maggio e il 7 novembre, che legittimavano il potere del Pcus come depositario delle tradizioni del movimento operaio e erede dei bolscevichi del 1917. In questa cornice, il 9 maggio era sì un giorno festivo (ma solo dal 1965), ma senza parate né grandi eventi pubblici, in una cornice privata e scandita dal minuto di silenzio trasmesso per radio e televisione in tutta l’Urss alle 18:50 di Mosca in punto.

Son queste circostanze a chiarire il perché del ruolo centrale dell’anniversario della vittoria sul nazismo nella Russia putiniana: la presenza di una memoria privata forte, in grado di legare gruppi sociali diversi, e la possibilità di usare come legittimazione del potere del Cremlino una ricorrenza che può presentare aspetti importanti sia dal punto di vista militare (comunque si tratta di un grande trionfo bellico) che politico, in tentativi di trasporre, spesso con forzature e imprecisioni, gli avvenimenti del 1941-45 alla realtà odierna.

In una Mosca attraversata dalla grande parata, a cui hanno preso parte circa dodicimila soldati e 190 mezzi, dai carri armati ai lanciamissili, Putin ha accolto le autorità e i veterani, e assistito dalla tribuna nella Piazza Rossa al passaggio dei militari, accompagnato dal presidente del Tagikistan Emomali Rahmon.

Nel discorso di quest’anno, incentrato sull’ormai prossimo ottantesimo anniversario dell’inizio dell’aggressione all’Unione Sovietica, il presidente russo non ha menzionato gli alleati del 1945, a differenza del passato, ma non ha usato gli accenti a cui oggi ricorre certa propaganda pro-Cremlino, che punta a oscurare e denigrare il contributo dato dai paesi europei (e dalle resistenze locali) alla vittoria sul nazismo.

Putin ha però puntato il dito contro il fenomeno della riabilitazione e della relativizzazione del collaborazionismo pro-fascista in Europa, senza far nomi, ma il riferimento probabile è alla marcia in onore dell’anniversario della costituzione della divisione SS “Galizia” (Halychyna) a Kiev, che ha suscitato le proteste del ministero degli Esteri israeliano e anche all’interno dello scenario politico ucraino, con dichiarazioni di condanna da parte dei membri del partito del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Simili manifestazioni avvengono anche in Lettonia, con sfilate organizzate da formazioni ultranazionaliste in onore dei locali volontari SS, e da sempre sono nel mirino di Mosca.

Quel che però resta poco chiaro, nonostante le condanne delle attività dei “gruppuscoli neonazisti”, come sono stati definiti da Putin, è quale idea di partnership Mosca voglia proporre all’Unione europea, e come questo dialogo possa essere possibile e fruttuoso per entrambe le parti, nella costruzione di una prospettiva futura di pace nel continente.

Una prospettiva in grado di evitare il ripetersi delle tragedie della storia europea, e che possa garantire alle generazioni presenti e future benessere e prosperità. Ma siamo sicuri che a Bruxelles, a Berlino, a Parigi e a Roma le idee siano ben più chiare della retorica del Cremlino?


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