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L’altra faccia della transizione ecologica. Il commento del prof. Pirro

I lavori “verdi” creati dalla svolta ecologica comportano la perdita di quelli legati ai combustibili fossili. Dietro a ogni lavoro perso ci sono professionisti e settori da supportare e riqualificare, onde evitare il contraccolpo sociale. Il commento del professor Federico Pirro, docente di Storia dell’Industria all’Università di Bari

“Quando penso alla transizione digitale, penso ai posti di lavoro”. Questo mantra, espresso dal presidente americano Joe Biden appena prima del summit sul clima, sta riecheggiando tra le alte sfere dei Paesi più attivi sul fronte della conversione verde.

Con la pubblicazione dell’ultimo report sull’economia circolare la Commissione europea ha stimato 170.000 posti di lavoro in più entro il 2035. La Francia ha rialzato con altri 300.000 posti. Il primo ministro britannico Boris Johnson ne ha promessi 250.000 attraverso la “rivoluzione industriale verde”, e anche il ministro italiano per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha detto ai microfoni di Rai Radio 1 che “le trasformazioni verso la green economy in genere creano posti di lavoro”.

Ma non è da sottovalutare il rischio del contraccolpo socio-economico. L’altra faccia della medaglia della transizione ecologica sono i lavori che dipendono dai combustibili fossili, ossia quelli che si scompariranno progressivamente da qui al 2050. Federico Pirro, docente di Storia dell’Industria all’Università di Bari, ha tratteggiato le criticità e il tracciato della svolta verde per Formiche.net.

Professor Pirro, Joe Biden e altri leader globali hanno posto l’accento sulla creazione di posti di lavoro che deriverà dalla transizione ecologica. Qual è la sua opinione in materia?

La transizione ecologica ed energetica sarà un processo lungo e non è affatto scontato che sarà rettilineo, socialmente indolore, uniforme nel tempo ed eguale in tutti i Paesi. Comunque, le previsioni più attendibili focalizzano riduzione di occupazione in certi comparti e incremento in altri. Personalmente condivido tali ipotesi. Basti pensare alla produzione e messa in opera di tecnologie sempre più complesse per le rinnovabili, a generazione e impiego di idrogeno verde, alla mobilità sostenibile, alle life sciences, solo per citare alcuni macrosettori.

Che impatto avrà la transizione ecologica, così com’è stata delineata nel Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, sulla produzione energetica italiana?

Il consumo di gas continuerà a crescere in sostituzione del carbone. Basti pensare, solo per fare un esempio, che la megacentrale a carbone dell’Enel a Brindisi da 2.660 megawatt spegnerà l’ultimo dei suoi gruppi da 660 megawatt – oggi alimentati a carbone – entro il 2025. Si spera che per quella data avrà terminato i lavori di riconversione a metano, anche se a oggi non ha ancora ricevuto le autorizzazioni dalle autorità competenti.

L’energia da fonti rinnovabili crescerà con eolico, fotovoltaico e biomasse, sperabilmente con una grande quantità di energia eolica prodotta off-shore e con repowering di eolico onshore. La Puglia, a tal riguardo, ha il primato nazionale di energia generata da eolico e fotovoltaico.

E la riqualificazione professionale dei lavoratori che perderanno il loro impiego?

Non vedo difficoltà particolari sulla riqualificazione professionale delle maestranze che dovranno praticarla – che già oggi in alcuni comparti hanno livelli di qualificazione medi e medio-alti – mentre avverto la necessità di un grande piano nazionale, articolato per settori e territori e da promuoversi di concerto fra Stato e Regioni, che gestisca i processi dalle dimensioni molto ampie per numero di soggetti che ne saranno coinvolti e il personale che sarà chiamato a trasferire know-how.

Che genere di realtà italiane sono a rischio, e quali sono in grado di sopportare il processo di transizione?

Già abbiamo fabbriche di grandi dimensioni che, ricorrendo in maniera massiccia agli ammortizzatori sociali, stanno fronteggiando ormai da anni flessioni crescenti e strutturali di domanda. Si pensi allo stabilimento della TD-BOSCH di Bari, con oltre 1.800 occupati, ove è nato il common rail per motorizzazioni diesel, e che ormai da anni ne subisce la pesante flessione.

Al contempo i settori già investiti, o almeno lambiti, da processi di riconversione e ristrutturazione sono numerosi, basti pensare – solo per citarne uno dei maggiori per numero di addetti e diffusione territoriale – all’automotive con la crescita dell’ibrido e del full electric.

A tal proposito, cosa insegna l’esperienza dell’ex Ilva?

Se si introdurranno uno o più forni elettrici nel Siderurgico di Acciaierie d’Italia a Taranto la flessione occupazionale sarà pesante e bisognerà ricollocare in nuove attività chi perderà il lavoro. E nessuno pensi che si potrà fare ricorso per anni alla cassa integrazione, creando una sorta di ‘riserva indiana’ in cui far sopravvivere alcune migliaia di persone espulse dalla fabbrica.

No, bisognerà lavorare invece a piani di reindustrializzazione qualificati, rigorosi, settorialmente ben definiti. Le potenzialità ci sono. Io ho redatto per conto della Regione Puglia i piani di sviluppo strategico delle due Zone economiche speciali, l’Adriatica e la Ionica, e ho individuato – come prescriveva la legge istitutiva delle Zes – i settori da sviluppare perché non presenti e quelli invece da rafforzare perché presenti, ma ulteriormente potenziabili.

Come può il governo ammortizzare lo shock della transizione?

Mettendo finalmente a punto un sistema moderno, avanzato e ben articolato di ammortizzatori sociali che diano prospettive e dignità ai lavoratori interessati che non devono sentirsi cittadini di serie b, ma protagonisti di una fase, certamente storica ma inevitabile, del nostro Paese.

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