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Un nuovo welfare occupazionale per la ripresa. La proposta di Mantovani (Cida)

Occorre investire nel lavoro di qualità, favorendo la crescita del lavoro remunerato con stipendi medi e alti. I dati dei dirigenti contenuti nel secondo numero di Labour Issue sono preoccupanti, con l’Italia fanalino di coda in un quadro europeo molto diversificato. L’intervento di Mario Mantovani, presidente Cida

Il secondo numero di Labour Issues – l’Osservatorio trimestrale realizzato da CIDA (la confederazione dei dirigenti pubblici, privati e delle alte professionalità) in collaborazione con Adapt – descrive lo stato dell’occupazione in quello che sarà, auspicabilmente, il punto più basso dell’economia italiana, colpita dalla pandemia Covid-19.

Mentre già nel mese di marzo abbiamo assistito ai primi timidi segnali di ripartenza, ci troviamo a fare i conti con una discesa del tasso d’occupazione, del numero di occupati e, con meno evidenza statistica, delle retribuzioni effettive, rispetto al 2019. Caduta attutita dai provvedimenti di blocco dei licenziamenti, dalle Casse Integrazioni, dai vari provvedimenti di ristoro e sostegno, ma ben evidente nei numeri e nella realtà quotidiana.

Ne hanno fatto le spese, come sempre, le categorie meno protette: chi ha visto scadere il contratto a termine, chi aveva un lavoro autonomo, dipendente da pochi committenti o bloccato dalle chiusure, chi non aveva alcun contratto.

Nel momento in cui sembra possibile ripartire non possiamo permetterci di ritornare alla situazione precedente. Le leve straordinarie di deficit e debito pubblico, attivate per contrastare il crollo reddituale e sociale, non possono essere azionate con regolarità, mentre gli shock di varia natura potranno ripresentarsi: nel giro di poco più di un decennio è già accaduto tre volte.

Occorre investire risorse in un welfare occupazionale che protegga tutti, dotando ciascuno di una rete di salvataggio, disegnata sul suo stato e sulle sue esigenze, diversificata quindi, ma universale. Non possiamo più fingere che un lavoratore autonomo o una micro impresa siano assimilati a una vera azienda, leggibile con i criteri di bilancio, di utile, perdite, redditività. Si tratta di lavoratori, soggetti spesso alle medesime dinamiche di mercato dei “dipendenti” e come tali da garantire in caso di difficoltà, da monitorare e aggiornare nelle competenze, da orientare. Le risorse vanno reperite nella fiscalità e nella contribuzione, cancellando le distinzioni dannose, la “concorrenza” tra contratti, sempre inevitabilmente orientata al ribasso.

Nello stesso tempo occorre investire nel lavoro di qualità, favorendo la crescita del lavoro remunerato con stipendi medi e alti. I dati dei dirigenti analizzati nel secondo numero di Labour Issue sono preoccupanti, con l’Italia fanalino di coda in un quadro europeo molto diversificato.

Il nostro Paese, infatti, si colloca al sestultimo posto con un 3,43% di manager sul totale degli occupati. In Europa si registrano percentuali superiori al 10% di manager sul totale degli occupati in Inghilterra, Islanda, Lettonia; tra l’8% e il 10% in Belgio, Estonia, Irlanda, Lituania, Norvegia; tra il 6% e l’8% Francia, Polonia, Portogallo, Slovenia, Svezia e Svizzera. Nel solo settore privato la situazione italiana appare ancora più anomala: ultimo posto in Europa, con un valore inferiore all’1% di dirigenti sul totale degli occupati nel 2019 (779 mila unità, 820mila nel 2018).

Un numero così basso rispetto a quasi tutti i paesi europei denota una carenza organizzativa profonda del nostro Paese, un posizionamento competitivo debole, un vuoto di prospettive. Dai dirigenti, dai tecnici di medio e alto livello, dalle alte professionalità può ripartire un’Italia diversa, finalmente posizionata nei segmenti globali con maggiore valore aggiunto, in grado trattenere e attrarre i talenti migliori, di generare ricadute positive anche per il resto dei lavoratori.

I pochi dirigenti e la scarsa attenzione della statistica al fenomeno documentata nel report sono specchio di un fallimento culturale, che ha guardato il lavoro – e spesso continua a farlo – come una “merce”, come uno scambio tra tempo e denaro, come una somma di “posti di lavoro”.

Nei prossimi mesi speriamo di vedere una nuova tendenza, non solo il recupero dei posti perduti. Una ripartenza che consolidi i timidi segnali di crescita del lavoro giovanile, di quella fascia 25-34 anni che nei paesi evoluti è fortemente dinamica e promuove le competenze più aggiornate e strategicamente rilevanti. Una fascia d’età in cui le donne mostrano capacità crescente di assumere ruoli di responsabilità, ma troppo spesso debbono rinunciare o rinviare la maternità, per carenza di servizi adeguati.

Nei prossimi mesi analizzeremo gli effetti dei provvedimenti di legge – quelli emergenziali adottati durante la pandemia e quelli che il governo sta varando per la ripartenza – ma non dimentichiamo le debolezze dell’Italia pre-Covid e gli obiettivi di trasformazione positiva del lavoro, da raggiungere prima che sia troppo tardi.

Buon Lavoro, ma sarà buono il lavoro dei prossimi mesi?

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