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Le luci e le ombre del whistleblowing

Di Stefano Fossi

Un webinar fa il punto sulle modifiche alla norma, entrate in vigore ormai da oltre tre anni, e sul difficile equilibrio tra contrasto alla corruzione, segretezza e necessità di verifica delle denunce

Uno strumento di contrasto alla corruzione, un ombrello o una rete di protezione contro possibili ritorsioni, un incentivo a superare la paura della denuncia.

Il dibattito sul whistleblowing, il meccanismo interno alle aziende pubbliche e private che facilita l’emersione di presunti illeciti e consente a chiunque abbia notizia di irregolarità di comunicarle immediatamente all’azienda senza correre il rischio di intimidazioni, prosegue ormai da anni. Se la prima normativa sul whistleblowing risale all’inizio del Duemila, con la Legge 179/2017 sono entrate in vigore nuove forme di tutela nel settore privatistico in materia di “whistleblowing”, che integrano quella già presente in ambito pubblico e con cui si è provveduto a modificare la struttura del precedente D.Lgs 231/2001, per consentire all’Autorità Nazionale Anticorruzione di esercitare il potere sanzionatorio in modo più efficiente.

La normativa, però, interessa solo le società che hanno adottato il Modello 231 e inoltre le condotte segnalabili sono solo quelle che integrano i reati previsti dal D.Lgs. 231/2001, comportando, così, l’esclusione dei reati previdenziali e tributari. Il sistema di tutela protegge significativamente il whistleblower contro possibili ritorsioni, ma non sembra offrire altrettante garanzie a favore di chi sia ingiustamente accusato. La nullità, senza limiti di tempo, di tutti gli atti pregiudizievoli per l’accusante potrebbe portare a situazioni paradossali.

Un confronto sull’applicazione della legge è stato organizzato dallo Studio di Comunicazione The Skill in un webinar dal titolo «“Whistleblowing”: gestione, criticità, opportunità». Una riflessione a più voci a cui hanno contribuito Matteo Benozzo (Founding Partner di B – Società tra Avvocati), Andrea Camaiora (Ceo & Founder di The Skill), Manfredi De Vita (Of Counsel presso PwC TLS Avvocati e Commercialisti), Enrico Di Fiorino (Partner dello Studio Legale Fornari e Associati), Pasquale Fimiani (Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione), Adelia Lucattini (psichiatra), Cosimo Pacciolla (Legal Manager, Compliance Officer Antitrust & Whistleblowing di Q8 Italia,), Guido Scorza (membro del Collegio del Garante per la Protezione dei Dati Personali) ed Enrico Maria Terenzio (Partner dello Studio Legale Terenzio). “Un’azienda che fa lo sforzo di adottare tutte le misure possibili per rendere efficace il whistleblowing deve comunicare questo sforzo all’esterno – ha spiegato Andrea Camaiora, Ceo di The Skill, analizzando i risvolti comunicativi della norma – sia per informare al meglio sullo strumento a disposizione, sia per poter rivendicare questa scelta nel momento in cui dovesse balzare agli onori della cronaca qualsiasi notizia di presunti illeciti. Di più: la notizia deve partire dall’azienda stessa. In questo modo è l’impresa che ‘governa’ le informazioni e guadagna in credibilità rispetto ai media”.

Tuttavia restano ancora molti dubbi, tra i giuristi, sulla vera efficacia del whistleblowing. A segnalarli è Cosimo Pacciolla che per facilitare la comprensione fa un salto indietro di 2500 anni nell’Antica Grecia: “Durante l’elaborazione di una tesi di laurea di una mia alunna ho cominciato ad andare indietro nel tempo per cercare l’origine di quello che noi oggi chiamiamo il whistleblowing e mi sono imbattuto nei ‘sicofanti’ – spiega – che facevano parte dell’ordinamento giuridico ateniese ed erano considerati un punto di rifermento perché segnalavano e denunciavano ipotesi di illecito e per questo venivano premiati – aggiunge ancora Pacciolla.- Nascono come paladini della giustizia ma successivamente cadono in una ‘patologia’ trasformandosi in calunniatori professionisti e finendo per diventare punto di riferimento critico di arroganza”. Per evitare che in questa deriva incorra anche il whistleblowing, secondo Pacciolla “serve riconoscere l’importanza del mediatore culturale che ci accompagna in ciascuno degli elementi che compongono la complessità”. A entrare nel merito giuridico delle segnalazioni è stato Matteo Benozzo: “La disciplina del whistleblowing nasce nel mondo anglosassone, il primo esempio si trova negli Stati Uniti della Guerra di Secessione e riconosce una ricompensa al denunciante su comportamenti scorretti tenuti durante il conflitto. Si struttura, poi, nel ‘900 prima in Usa e poi in Uk. In Italia arriva con la Legge 190 del 2012, che rafforza l’anticorruzione e riconosce la disciplina nel Testo Unico sul pubblico impiego per proteggere chi segnala cose illecite. La legge si è amplificata e vive oggi l’attuale assetto con la 179 del 2017 che, oltre a riscrivere l’articolo sui dipendenti pubblici, ha esteso l’applicazione del whistleblowing anche agli enti privati”.

Il punto centrale della legge è l’anonimato o la segretezza di cui deve godere chi segnala un presunto illecito. “Chi segnala – spiega Benozzo – non può essere oggetto di sanzioni discriminatorie. Se nell’immediatezza della segnalazione si interviene con un cambio di mansioni, l’onere della prova, cioè la dimostrazione che quel cambio di mansioni si fa a fini organizzati e non per ritorsione, spetta all’azienda. È il datore di lavoro che deve dimostrare che la decisione di cambiare mansione al segnalante non è motivata o non ha nulla a che fare con la sua segnalazione”. Inoltre, spiega sempre Benozzo, la disciplina del whistleblowing non appartiene solo al dipendente ma anche ai lavoratori autonomi, ai componenti del Cda o delle commissioni di vigilanza anche senza incarichi particolari e si estende a volontari e tirocinanti, ai facilitatori della segnalazione, ai familiari e colleghi, fino ai soggetti giuridici cui il singolo lavoratore segnalante appartiene direttamente o indirettamente. Ma come interviene l’autorità nel caso in cui non si adotti in modo corretto la 231? “Le sanzioni non sono il migliore degli strumenti educativi ma sono una sconfitta – spiega Guido Scorza – vuol dire che non abbiamo orientato il mercato nella direzione giusta e in questo senso il whistleblowing è un caso esemplare di bilanciamento tra diritti e interessi alla segretezza, che è il cuore dell’Autorità Garante della Privacy. Non c’è dubbio che il segnalante ha diritto alla segretezza, che non significa semplicemente oscurarne il nome, ma rendere inaccessibile qualsiasi altro tentativo di rintracciarne l’identità, anche in via telematica”.

Che cosa rischia l’anonimo? A tracciare i confini civilisti e penalisti della fonte nascosta di una denuncia di illecito è Enrico Di Fiorino: “Sappiamo bene la fine che fanno nelle procure le denunce anonime, vengono messe da parte perché non sono specifiche, quindi attenzione all’anonimato. Serve riservatezza a tutti gli effetti ma affinché la denuncia segua il suo corso è necessario poter fare delle verifiche”. Non è meno importante da affrontare anche l’aspetto psicologico legato al whistleblowing. “Le aziende dovrebbero fare molta attenzione non solo a chi denuncia ma anche a quanto si denuncia” afferma Adelia Lucattini. ”Un’azienda che produce troppe segnalazioni può presupporre che i dipendenti siano in una delicatissima fase di burnout, insofferenza critica nei confronti di tutti che però non porta ad alcun risultato. L’azienda in cui si segnala troppo poco, invece, dovrebbe fare una riflessione interna circa la sfiducia che il personale potrebbe nutrire in merito sia alla segretezza delle informazioni che potrebbero circolare sia nella possibilità che la denuncia possa servire effettivamente a qualcosa” spiega ancora la psichiatra. “Altro fattore da valutare è la tipologia di persona che denuncia, non è detto che tutti si trovino in un equilibrio psicofisico ottimale; ci sono anche depressi e persone con disturbi pesanti, come per esempio chi ha manie persecutorie che spesso finisce con il denunciare molto frequentemente sempre lo stesso fatto e sempre le stesse persone”.

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