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Ecco il vero ponte sullo Stretto che serve all’Italia. La proposta di Erasmo D’Angelis

Anziché concentrarsi su un’opera dalla complessità senza precedenti in una delle aree più delicate e dinamiche del mondo dal punto di vista geologico, non potremmo farlo sulla diminuzione del rischio sismico e idrogeologico nei versanti calabrese e siciliano, migliorando la logistica e le reti ferroviarie e stradali con interventi urgenti? Non è forse questo il ponte che serve? Erasmo D’Angelis analizza tutte le fasi del Ponte sullo stretto di Messina fino ad oggi

È l’ora del ponte atteso dalle guerre puniche. Ma di quello vero, il ponte che non si fila nessuno, rimosso com’è da ogni tavolata politica, lasciato fuori da ipotesi di task force, norme semplificatorie, pianificazioni operative di finanziamenti, assente persino dalle chiacchiere da bar, lasciato nel disinteresse mediatico e dei social. Eppure collegherebbe da sponda a sponda l’isola più grande del Mediterraneo e la penisola più dissestata alla massima sicurezza possibile innanzitutto dal rischio estremo “dell’inferno in terra” che centotredici anni fa devastò lo Stretto sismico in meno di un minuto. Forse un ripasso di storia aiuta a capire qual è il vero ponte da costruire e senza perdere tempo.

L’inferno scese di nuovo in terra di Calabria e Sicilia lunedì 28 dicembre 1908 alle 05.21, con il terremoto dei terremoti che in soli 37 secondi scatenò una delle più grandi catastrofi naturali dell’umanità con intensità 7.1 della scala Richter, provocando una ecatombe con un numero di vittime tra i più alti della storia mondiale. La cifra più attendibile – vista la precarietà delle anagrafi di allora e la successiva mortalità non tenuta in conto – balla intorno ai 120mila morti. I suoi effetti furono talmente distruttivi da spingere il sismologo Giuseppe Mercalli ad aggiungere altri due gradi alla sua già impressionante scala macrosismica, portandola al dodicesimo. Colpì senza pietà, e in un fiato tutto iniziò a squarciarsi e a crollare. In quei secondi di puro terrore la “sventurata Messina”, Reggio e le città e i paesini tra Scilla e Cariddi erano già mucchi di rovine di pietre e travi. Ma non era finita. Sotto una pioggia torrenziale tanti sopravvissuti di Messina furono arsi vivi da vampate di fuoco per il gas che si sprigionava dalle tubature squarciate che il vento spingeva sulle macerie. Altri, in cerca della più naturale delle salvezze verso il mare, furono inghiottiti dalle scene bibliche di quattro colossali ondate di tsunami alte come i più alti palazzi della città che si abbatterono sulla spianata di San Ranieri e sulle coste dello Stretto con ondate dai 6 ai 12 metri di altezza risucchiando per 200 metri nei gorghi le migliaia di scampati ammassati sulle rive, cancellando Pellaro, Lazzaro e Gallico sulle coste calabresi, Briga, Paradiso, Sant’Alessio e Riposto su quelle siciliane.

Non c’erano soccorsi. Solo alle 9.15 del 29, nella rada di Messina comparve l’incrociatore russo Makarov con l’intera squadra navale della Marina dello Zar in “crociera di addestramento” nel Mediterraneo. Subito dopo, spuntarono navi da guerra inglesi. Organizzarono loro i primi soccorsi, prima delle nostre corazzate Regina Elena e Napoli. Tutte le navi da guerra diventarono ospedali galleggianti, utilizzati per il trasporto dei feriti. L’Italia intera e il mondo erano sgomenti e fecero a gara per inviare denaro, viveri, indumenti e squadre di volontari. Da ogni parte del mondo partirono aiuti. La ricostruzione andò avanti tra ritardi e confusione e Giolitti si giustificò con “l’immensità della tragedia”, incolpando la “malvagità della natura” e la “fatalità”. Per fronteggiarla, alle tendopoli affiancarono poi 36.000 baracche di legno che per decenni ospitarono siciliani e calabresi in condizioni terribili.

Doveva essere, poteva essere il terremoto-spartiacque. Lo Stato monarchico recuperò le prime norme antisismiche del mondo emanate da Ferdinando IV dopo il terremoto del 1783, che fecero del Sud un laboratorio mondiale di pianificazione urbanistica e case sicure. Studiarono “accorgimenti antisismici” e “incentivi ai privati” per rafforzare l’edilizia in tutto il Regno, e con il Regio decreto del 18 aprile 1909 n.193 vararono “Norme tecniche ed igieniche obbligatorie”, migliorando le buone regole in vigore da due anni e contenute nel Decreto Reale 511 del 16 settembre 1906 dopo il precedente tremendo sisma del 1905 che fece morti e feriti, ma erano rimaste inapplicate. Obbligavano le case ad avere “una ossatura in legno, di ferro, di cemento armato o di muratura armata, muratura squadrata e listata, telai, cordoli, sbalzi, strutture non spingenti”. Escludevano edificabilità “in siti inadatti come terreni paludosi, franosi o molto acclivi”.

Limitavano le altezze a 10 metri, vietavano sopra-elevazioni, imponevano strade larghe minimo 10 metri. Prescrizioni boicottate e sepolte sotto il menefreghismo generale fino ad oggi. Centotredici anni dopo, infatti, di quel terremoto a Messina è rimasta ancora l’eredità vergognosa delle baracche sopravvissute al re e al fascismo, a due guerre mondiali e a 67 governi della Repubblica! La baraccopoli passata di padre in figlio, e sempre rabberciata con l’ingegneria della povertà. Una vergogna mondiale. E tra Calabria e Sicilia nell’anno 2021 moltissimi edifici tirati su alla meglio e abusivi in zone ad alto rischio sismico non sono in grado di resistere alla forza di un sisma non importante, e basterebbe ricordare il Natale 2018 con le scosse etnee che butto giù case e chiese in 6 paesi, una delle sette aree di ricostruzione post-sisma italiane.

È lo spaventoso problema edilizio italiano che ha il suo cuore malato nello Stretto, da risolvere ora e subito e non domani, facendola finita con l’assenza di una seria cultura della prevenzione. E invece? Invece il problema numero 1 dello Stretto non è il ponte della sicurezza che per i professionisti della rimozione non porterebbe voti anzi porta sfiga parlarne, è roba da jettatori, allarmisti, mette ansia, sarebbe procurato allarme. Non è l’attraversamento verso il rafforzamento e la rigenerazione di migliaia di edifici a rischio crollo da sisma con centinaia di migliaia di persone dentro, case e scuole e municipi da rendere antisismici prima possibile, in una Italia che ha sul groppone sismico tra i 4 e i 5 milioni di edifici sui 12 milioni complessivi a serio rischio danneggiamento o schianto da crollo per terremoti, dove vivono e lavorano 23 milioni di italiani.

L’alibi per non far nulla è sempre stato quello dei soldi. L’investimento necessario per mettere nella massima sicurezza l’edilizia italiana più a rischio da una scossa con potenza di magnitudo L’Aquila 2009, cioè 6.3, ha un valore di 100 miliardi di euro (dati Consiglio nazionale degli ingegneri, e struttura di missione Casa Italia). Una cifra di fronte alla quale la politica last minute ha sempre reagito con il rinviare il problema. Nel frattempo le sole ricostruzioni dei soli ultimi 3 grandi terremoti dei soli ultimi 11 anni con morti e rovine stanno costando allo Stato ben 53 miliardi di euro: L’Aquila 2009 17.4 miliardi; l’Emilia 2012 13 miliardi, il Centro Italia 2016-2017 23 miliardi.

È oltre metà dei 100 miliardi che l’ipocrisia nazionale, la politica che non pensa a prevenire e il fatalismo di stampo medievale che ci trasciniamo dai tempi antichi ha sempre considerato non alla portata di un Paese come l’Italia. Anziché spendere ogni anno, dal dopoguerra, circa 4 miliardi di euro in media per riparare i danni di catastrofi sismiche, forse converrebbe iniziare a investire molto meno salvando vite umane e beni, utilizzando bonus e sisma-bonus che paradossalmente restano fermi nelle casse dell’Economia. All’Italia che sta sfogliando la margherita “ponte o tunnel”, il surreale dibattito estivo 2021, andrebbe spiegato che nello Stretto tra i più sismici della Terra, il buonsenso finanzierebbe innanzitutto la sicurezza. Farebbe bene un viaggio tra i 138 Comuni devastati del centro Italia insieme al commissario Giovanni Legnini che sta affrontando una delle più complicate ricostruzioni con un bel segnale di transizione verso la massima sicurezza antisismica e da altri rischi naturali con edilizia sostenibile, tecnologie di controllo, forte recupero di identità e economie locali.

C’è tanto lavoro in Italia, è un business pazzesco per chi vuol prenderla da questo lato, è il nostro vero ponte. Invece siamo invischiati nella più assurda storia con l’ultimo stanco dibattito “ponte o tunnel sotto lo Stretto?”. Il mare azzurrissimo tra Sicilia e Calabria stride con migliaia di chilometri di strade siciliane e calabresi inguardabili e interrotte da frane, con lo “sfasciume pendulo” di città come Messina che piani di sviluppo megalomani e un abusivismo in crescita e senza precedenti nel mondo avanzata hanno lasciato edificazioni su 406 “nodi idrogeologici” cioè alluvioni pronti a devastare, su aree colpite da crolli per “frane complesse”, “colamenti rapidi”, “dissesti dovuti a erosione accelerata”, e dove «…l’intensa urbanizzazione rende concreta la possibilità che una nuova calamità possa essere ancora più disastrosa di quella di cento anni fa”. Interesse a qualcuno? Solleva dibattiti? Macché.

Il ponte invece colpisce l’immaginario, fa tanto “progresso”, è diventato il simbolo di tutto quel che manca ma lasciando tutto il resto come era prima anzi peggio. È un sogno inseguito da due millenni, da quando nell’estate del 250 a.C. il console Lucio Cecilio Metello lanciò tra la Sicilia e il Continente il primo e unico attraversamento ma a tempo (i Romani costruttori temerari lo fecero galleggiante e lo lasciarono spazzar via dal mare in tempesta, preferendo la navigazione) per trasferire il suo esercito con 104 elefanti catturati al cartaginese Asdrubale dopo la battaglia di Palermo dell’anno prima. Narra Strabone, che “radunate a Messina un gran numero di botti vuote le ha fatte disporre in linea sul mare legate a due a due in maniera che non potessero toccarsi o urtarsi. Sulle botti formò un passaggio di tavole coperte da terra e da altre materie e fissate a parapetti di legno ai lati affinché gli elefanti non avessero a cascare in mare”.

Ci riprovò nel IX secolo Carlo Magno da imperatore, e i suoi ingegneri organizzarono una sequenza di pontili galleggianti ma il tentativo fallì sul nascere. Poi si impegnò inutilmente il normanno Ruggero d’Altavilla nel 1060, seguito nel 1140 da Ruggero II re di Sicilia che fece studiare le tumultuose correnti ma capì anche lui che erano meglio le navi senza sfidare i fondali marini ad a elevata sismicità e dunque parecchio irregolari e molto profondi anche oltre 100 metri, e la spinta di forti venti. Anche otto secoli dopo quando, nel 1840, architetti e di ingegneri del Regno di Napoli consegnarono a Ferdinando di Borbone i loro progetti, i tomi e i disegni ritornarono indietro per il loro eccessivo costo non ammortizzabile e per il tremendo impatto della spesa per i due epocali terremoti del Seicento e del Settecento che distrussero gli abitati con l’elevato costo delle prime ricostruzioni antisismiche del mondo.

Nel 1866 fu il ministro dei Lavori Pubblici del Regno d’Italia, Stefano Jacini, a incaricare l’ingegnere Alfredo Cottrau, responsabile delle ferrovie, della progettazione del “collegamento stabile” tra Calabria e Sicilia, e sul “Monitore delle Strade Ferrate” del 3 maggio 1883 il progettista descrisse il progetto con 5 campate che consisteva: “…nel poggiare le pile metalliche relativamente leggierissime ed offrenti poco ostacolo alle correnti ed ai marosi su grossi galleggianti in lamiera di acciaio, a forma di pesce piatto (come le tinche), ossia composte con due calotte sferiche riunite insieme; i galleggianti erano supposti sommersi e trattenuti a mezzo di forti ancore, a circa 10 o 12 metri sotto il livello medio del mare: essendo da tutti risaputo che a quelle profondità le più potenti burrasche diventano inerti ed insensibili.” Nel 1870, però, l’ingegner Carlo Alberto Navone aveva presentato il suo progetto di “Passaggio sottomarino” con una galleria di 22 km ispirata quella della Manica, a 150 metri sotto il mare. Navone spiegò che era un “miracolo” a portata di mano e dettagliò al centesimo il costo: 10.576.450,88 lire. Sei anni dopo, l’allora ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Zanardelli sposò l’ideona: “Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente”. Sopra o sotto, del progetto non se ne fece nulla.

Nel 1952, il cinegiornale Settimana Incom dedicò un servizio all’ingegnere americano David B. Steinmann che, sotto il titolone bomba: “Forse la Sicilia non sarà più un’isola”, spiegava di averne già fatti 204 di ponti, e per quello di Messina bastavano 567.000 metri cubi di cemento, 46.400 tonnellate di cavi, 74.500 tonnellate di acciaio e 60 milioni di dollari. Lo aveva incaricato l’associazione ACAI dei costruttori italiani in acciaio. Il progetto preliminare avrebbe dovuto scavalcare lo stretto in tre balzi con due piloni alti 220 metri sopra il livello dell’acqua e per 120 metri sotto il mare, con ascensori di controllo delle strutture dai fondali alla sommità. Prevedeva una luce centrale di 1.524 metri da record mondiale di campata libera, alto dal pelo dell’acqua 50 metri per consentire il passaggio di qualsiasi nave, era lungo 2.988 metri e a due piani con nell’inferiore il doppio binario ferroviario e in quello superiore una strada di 7 metri e 30 di larghezza e due piste laterali. I cavi tesi tra i piloni avevano un metro di diametro, e la costruzione avrebbe richiesto il lavoro di 12.000 operai. Da allora l’idea viaggiò su cartoline postali con Polifemo che reggeva le arcate e la scritta “Saluti dal Ponte sullo Stretto!”, su annulli filatelici bel 1953 che celebrarono il ponte immaginario, persino sul fumetto Disney “Zio Paperone e il Ponte di Messina”.

Nel 1955 le maggiori imprese di costruzioni – Finsider, Fiat, Italcementi, Pirelli, Italstrade formarono il “Gruppo Ponte Messina Spa” che portò alla costituzione della società concessionaria “Stretto di Messina Spa” nel 1981 tra Italstat, Iri, Fs, Anas e Regioni Calabria e Sicilia. Il concorso internazionale di idee lanciato nel 1969 dal ministero dei Lavori Pubblici fece arrivare 143 progetti sul bando che prevedeva il ponte per il transito di due binari ferroviari e sei corsie autostradali stanziando per studi preliminari 3,2 miliardi di lire. Finì all’italiana, tutti contenti ma tutti fermi con 12 premi consegnati: 6 primi premi ex aequo di 15 milioni di lire e 6 secondi premi sempre ex aequo di 3 milioni di lire.

Nel 1982 il ministro del Mezzogiorno Claudio Signorile annunciò “qualcosa in tempi brevi”. Due anni dopo inserì anche la data: “Il ponte si farà entro il 1994”. Nel 1985 il Presidente del Consiglio Bettino Craxi dichiarò “sarà presto fatto”. Il 16 giugno del 1986 la “Stretto di Messina Spa” presentò un nuovo studio di fattibilità ma con tre tipologie di soluzioni: in sotterraneo, in mare, in aria. Fate voi. E l’allora presidente dell’Iri, Romano Prodi, disse che “è una priorità”, prevedendo la fine lavori nel 1996. Ma quale ponte?

Il 19 febbraio 1987 le ferrovie deliberarono il ponte sospeso a campata unica di 3300 metri. Nel 1992 il Governo Amato ricevette il progetto “definitivo migliorato” e persino con la valutazione di impatto ambientale. E nel 1994 Silvio Berlusconi andò per le spicce e annunciò a modo suo: “Costruiremo il ponte, così se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti…”. Per il leader col sole in tasca doveva essere “l’ottava meraviglia del mondo”, con lo spiazzante “disponiamo di un progetto definitivo…le fasi di realizzazione dell’opera procederanno secondo i programmi prestabiliti dal governo”, ed erano 586 i proprietari prossimi alle aree di sponda pronti ad essere espropriati dei terreni necessari a piantar piloni. Era secco però il no della Lega Nord: “Opera vergognosa, inutile e dispendiosa”, poi man mano diventato un sì.

E fu boom operativo persino con assunzioni di addetti alla manutenzione del ponte che non c’era, l’affidamento all’Istituto Ornitologico Svizzero – raccontarono su Repubblica Beppe Baldessarro e Attilio Bolzoni – di una “investigazione radar delle specie di uccelli migratori notturni per catalogare con la massima precisione le quote di volo, le loro planate e le loro picchiate… monitoraggi sulle possibili relazioni con i flussi migratori dei cetacei, commissionato all’Università di Messina. I progetti preliminari su tonnellate di carte e diecimila tavole (78 mila euro spesi in un anno per fotocopie e “lavori eliografici”) giunsero al preventivo di 8,5 miliardi di euro, e quindi il colpo di scena della (finta) posa della prima pietra in gran pompa nel 2009 nella borgata di Cannitello. Arrivò poi al governo Romano Prodi nel 1996, e lo inserì nel suo programma come “priorità nazionale ed europea”.

Ma l’opera non procedeva di un millimetro, e il progetto si trascinò fino al 2005, terzo governo Berlusconi, quando a ottobre l’”Associazione Temporanea di Imprese Eurolink S.C.p.A”, guidata da Impregilo vinse la gara d’appalto come contraente generale per la costruzione del ponte con un’offerta di 3,88 miliardi di euro. Il 4 novembre dello stesso anno la Direzione investigativa antimafia indicò al Parlamento l’infiltrazione di Cosa Nostra sulla realizzazione. Il 27 marzo 2006, Impregilo firmò il contratto per la progettazione finale e la realizzazione.

Tornò di nuovo il Governo Prodi e a sorpresa il 10 aprile bloccò l’iter retrocedendo il ponte a “opera non prioritaria”, esponendosi al pagamento di una penale di oltre 500 milioni di euro, procedendo poi ad accorpare la società Stretto di Messina all’Anas poiché, spiegò il ministro Di Pietro, la mossa evitava il pagamento delle penali alle società appaltanti per la mancata esecuzione dei lavori. Ma a gennaio 2009 fu di nuovo Governo Berlusconi che ripescò il ponte e diede il nuovo via ai lavori annunciando l’attraversamento per l’anno 2016. Il 2 ottobre 2009 la Stretto di Messina impartiva al contraente generale l’ordine di inizio dell’attività di progettazione definitiva ed esecutiva.

I primi cantieri per lavori propedeutici furono avviati il 23 dicembre a Cannitello poco a nord di Villa San Giovanni e furono conclusi il 17 aprile 2012. Ma intanto era Governo Monti e Corrado Clini, ministro dell’Ambiente dichiarava: “Non esiste l’intenzione di riaprire le procedure per il ponte sullo stretto di Messina, anzi al contrario, il governo vuole chiudere il prima possibile le procedure aperte anni fa dai precedenti governi”. Il 10 ottobre in legge di stabilità stanziarono 300 milioni per le penali per la non realizzazione del progetto e misero in liquidazione la società Stretto di Messina con decreto del 15 aprile 2013. Con lo spread a quota 574, spiegarono, l’Italia indebitata non poteva permettersi dì spendere 8,5 miliardi per un ponte. Erano già stati buttati 312 milioni con contenziosi e polemiche.

Per ultimo sull’aggrovigliata vicenda salì, il 5 giugno 2020, a sorpresa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciando valutazioni “senza pregiudizi” sul progetto. Lo stesso giorno, 20 deputati del Pd gli chiedono di garantire l’attraversamento utilizzando i fondi del Recovery, impossibili da utilizzare per opere del genere. La ministra delle Infrastrutture, Paola De Micheli, presentò la riscoperta del tunnel, il “ponte sottomarino” sul quale partì l’indimenticabile dibattito estivo del 2020. L’uomo del tunnel, l’ingegnere Giovanni Sacca, il 4 luglio 2020 a Montecitorio, espose il suo: “Submerged Floating Tube Bridge”, un tunnel a mezz’acqua, quattro gallerie ancorate al fondale con tiranti d’acciaio oppure a una fila di colonne poggiate sul fondale, oppure appeso a pontoni galleggianti.

Andrebbe perforato il fondale dello Stretto sei volte (due per i tunnel esplorativi, due per quelli ferroviari e due per il traffico automobilistico) con i tunnel ferroviari di 34 chilometri e autostradali di 16 km, con percorsi e lunghezze diverse perché i treni ad alta velocità non possono superare una pendenza superiore al 15 per mille. La galleria andrebbe scavata a 290 metri sotto il livello del mare con rampe graduali per evitare pendenze eccessive ma dentro una faglia sismica che attraversa lo Stretto in senso longitudinale che in caso di terremoto rilascerebbe energia con spinte divergenti e opposte.

Il viceministro delle Infrastrutture, il grillino Giancarlo Cancelleri lo fece suo, segnando la conversione dei grillini del No a tutte le grandi opere, avallando a sorpresa quella che avevano sempre bocciato come “un’idea berlusconiana”, “regalo alle mafie”, “il ponte tra due cosche”, come “un miracolo d’ingegneria”. Pietro Salini, l’ad di WeBuild ex Salini-Impregilo, capofila del general contractor Eurolink e protagonista della veloce e stupefacente rinascita dell’ex ponte Morandi di Genova, si disse pronto a farlo: “… si può partire anche subito e, col modello Genova entro massimo quattro anni”.

Con il mancato inserimento tra le opere del Pnrr di Mario Draghi, con il ministro Giovannini che vorrebbe lasciarlo al débat public, tra le stroncature di grandi esperti di sismica come Alberto Prestininzi con cattedra di rischi geologici alla Sapienza che dice: “Solo un pazzo potrebbe immaginare una galleria a quelle profondità sismiche, il rischio è talmente elevato nello Stretto che è follia solo pensare al ponte o al tunnel”.

Sarebbe interessante avere dati sui costi-benefici, fondamentali per capire se altre tipologie di investimenti possono dare risultati migliori a parità o con minore spesa, creando più occupazione in tempi più rapidi. Sarebbero necessarie realistiche previsioni di transito soprattutto di merci via ferrovia di lunga distanza, e capire se sono migliori del trasporto marittimo o aereo sul piano dei costi, della tempistica e ambientale. Stimare, insomma i costi delle alternative e i loro benefici. Tanto più che nessuno parla mai di pedaggi, e l’opera deve essere non solo tutta a “finanziamento pubblico” manutenzione compresa, ma priva di ticket perché l’ipotesi pedaggio farebbe diminuire il traffico e non giustificherebbe la nuova linea Av Salerno-Reggio.

Il ministro Giovannini ha chiesto approfondimenti non scartando giustamente l’opzione zero, valutazioni anche sull’alternativa del potenziamento dei servizi traghetti, porti e stazioni ferroviarie. E nel frattempo, anziché concentrarsi su un’opera dalla complessità senza precedenti in una delle aree più delicate e dinamiche del mondo dal punto di vista geologico, non potremmo farlo sulla diminuzione del rischio sismico e idrogeologico nei versanti calabrese e siciliano, migliorando la logistica e le reti ferroviarie e stradali con interventi urgenti, costruendo acquedotti e depuratori che fanno di quelle due regioni paesi in via di sviluppo? Non è forse questo il ponte che serve?

(Foto: progetto plastico del Ponte sullo stretto di Messina del 2011)


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