La catena giapponese di abbigliamento, mobili e accessori non solo usa il cotone della regione cinese dove sarebbero compiute violazioni dei diritti umani contro gli uiguri ma non vede nessun problema nel pubblicizzare questa scelta. Tensioni tra Stati Uniti e Giappone
C’è chi si pente di avere usato il cotone prodotto nello Xinjiang, pagando anche il prezzo di essere cancellato da quasi tutti i siti di e-commerce in Cina, e chi invece si vanta di usarlo.
L’azienda di abbigliamento svedese H&M, tra altri brand, fa ancora i conti con la decisione di non volere restare legato ad una regione in cui le autorità cinesi starebbero compiendo violazioni dei diritti umani contro la comunità uiguri (qui l’articolo di Formiche.net).
Per riempire questo vuoto nel mercato asiatico, la catena giapponese Muji ha preferito giocare al contrario. Secondo il Wall Street Journal, Muji si è schierata pubblicamente a favore del governo cinese, spiegando che non solo usa il cotone della regione dello Xinjiang ma non vede nessun problema nel pubblicizzare questa scelta. Infatti, il sito web cinese dell’azienda Muji ha presentato una linea di abbigliamento chiamata “Cotton Xinjiang” tra i nuovi prodotti (foto a sinistra del sito Depop).
Questa strategia commerciale non è casuale: Muji è un marchio di abbigliamento e articoli per la casa con sede a Tokyo, proprietà di Ryohin Keikaku Co., e ottiene circa la metà dei ricavi dal mercato cinese. Solo una piccola parte dei loro clienti è negli Stati Uniti e in Europa (in Italia è a Torino, Milano, Bologna e Roma).
“Le dichiarazioni pubbliche di Muji rappresentano un approccio al dilemma di fare affari in Cina per le aziende di abbigliamento – si legge sul Wsj -. Le aziende a volte devono scegliere se accontentare il governo cinese – e i numerosi consumatori nel Paese che seguono l’esempio ufficiale – o ascoltare gli avvertimenti degli attivisti per i diritti umani”.
Per l’azienda giapponese, gli attivisti non hanno la possibilità di accertare che il cotone usato nelle magliette e in altri indumenti venga raccolto usando torture e intimidazioni nello Xinjiang.
Ryohin Keikaku Co. sostiene di avere eseguito un’indagine su 5.000 ettari di fattorie e altre strutture nello Xinjiang durante il 2020 “e non ha riscontrato violazioni materiali dei diritti umani. In precedenza, la società aveva affermato che l’indagine non faceva emergere problemi significativi oltre ad alcuni che potevano essere risolti”, scrive il Wsj.
Il sito Nikkei Asia riferisce che Muji si è impegnato a chiedere “alle aziende della nostra catena di approvvigionamento di sforzarsi di migliorare le condizioni di lavoro, nonché di continuare a raccogliere informazioni con cautela e ad adottare misure appropriate per prevenire l’abuso dei diritti umani nella catena di approvvigionamento”.
Hanno un criterio diverso il governo degli Stati Uniti e diverse organizzazioni indipendenti per i diritti umani, che sono preoccupate per i casi di razzismo sulle minoranze etniche e sul lavoro forzato nello Xinjiang. Il Xinjiang Supply Chain Business Advisory è stato pubblicato dai Dipartimenti di Stato, Commercio, Tesoro e Sicurezza Interna degli Stati Uniti a luglio 2020 e avverte dei “rischi legali, economici e di reputazione nel fare affari con aziende cinesi coinvolte in violazioni dei diritti umani”.
Come si legge sul sito Al Jazeera, all’incontro tra il presidente americano Joe Biden e il premier giapponese Yoshihide Suga, alcune società giapponesi sono state coinvolte nel fuoco incrociato diplomatico. E tra queste c’era Ryohin Keikaku Co, che controlla Muji.