La Francia contrasterà l’espansione della militanza jihadista “dalla Libia all’Atlantico”, ovvero potrà risolvere un problema diretto per gli stessi Stati Uniti in Nord Africa e nel Sahel. Come si muoverà Joe Biden? Quattro scenari
Il 2020, oltre ad essere l’anno del Covid-19, che ha bloccato e ritardato importanti processi di riforma dell’Unione Africana, ha segnato una ripresa dell’attività jihadista in particolare attorno al Lago Ciad e nel Sahel occidentale.
Secondo gli esperti la fascia di transizione tra la Savana e il Sahara, tra l’Africa sub-sahariana e la costa araba-mediterranea, è attraversata da endemici conflitti tra pastori nomadi e centri urbani, conflitti non risolvibili a breve o con formule magiche e “importate” dall’Occidente. Anche se, ovviamente, l’Occidente e in particolare quell’Occidente mediterraneo e proiettato a Sud di cui l’Italia è parte integrante e fondamentale, può fornire contributi essenziali, integrati tanto con le prospettive dell’Agenda 2030 quanto con quella dell’Unione Africana (Agenda 2063).
L’African Union Commission (Auc) è di fatto l’organo di governo transnazionale più in compliance con le indicazioni dell’Onu, e in particolare delle agenzie per lo sviluppo Unido (cooperazione), Unctad (commercio e sviluppo) e Un-Ohrlls (agenzia per i paesi meno sviluppati e privi di sbocchi al mare), senza considerare l’apposita commissione delle Nazioni Unite per l’economia africana, la Un-Eca.
Per chi, come l’Europa occidentale (e per un breve periodo gli stessi Usa), è ancora alle prese con gli effetti dello tsunami politico-mediatico “sovranista”, si tratta di una vera e propria sfida. In questo quadro va collocato il ripensamento francese dell’operazione Barkhane (in corso da agosto 2014, quando è subentrata all’operazione Serval), e il lancio nel gennaio 2020 al Summit di Pau di una nuova strategia sotto l’egida della neocostituita Coalizione internazionale per il Sahel insieme a Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad.
Con questo passo, nonostante alcune discussioni interne e un montante scetticismo esterno, Parigi ha ribadito il proprio impegno a fianco del G5 Sahel (formato dalle truppe dei cinque paesi della regione) e di Minusma, la missione Onu di stabilizzazione in Mali.
Vi sono sicuramente settori tradizionali di classe dirigente francese – di cui Emmanuel Macron e l’esperto ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian appaiono ancora parte – che ritengono l’investimento nell’impegno politico-militare per la stabilità dell’Africa occidentale come architrave strategica di medio-lungo periodo per la stessa Europa.
Al punto da lasciare intendere, come dichiarato dallo stesso Le Drian, che la Francia contrasterà l’espansione della militanza jihadista “dalla Libia all’Atlantico”, ovvero potrà risolvere, con la pazienza tipica di una potenza coloniale, un problema diretto per gli stessi, a volte riluttanti, Stati Uniti.
La strategia francese lanciata a Pau incrocia elementi di “stabilità” tattica con prospettive di sviluppo e cambiamento, tanto è vero che si è adattata abbastanza rapidamente al cambiamento di regime dopo il colpo di Stato dell’agosto 2020 in Mali. Da questo punto di vista, sembra che le tempeste sovraniste e post-pandemiche, che in qualche misura hanno accentuato l’arroccamento dell’Occidente e del Nord del mondo, non abbiano sfiorato più di tanto la filosofia della Francafrique.
Tuttavia aleggiano su questo quadro pesanti elementi di riflessione e incertezza che vanno messi in evidenza, ponendosi almeno quattro domande.
1) Gli Usa sono disposti ad appoggiare investimenti importanti in aree che tradizionalmente considerano marginali? Il riferimento in questo caso è al maggiore coordinamento tra G5 Sahel e Minusma proposto da Parigi e che eviterebbe la congestione delle missioni nell’area, se passasse la linea di un “lasciare all’Africa” (cioè ad un’ennesima missione, questa volta a guida UA) la gestione della crisi nel triangolo Burkina Faso-Mali-Niger.
2) Parlare ora, per quanto dietro le quinte, di “exit strategy” dalla regione, come racconta l’International crisis group (Icg) può legittimamente far pensare ad una riedizione dell’Afghanistan?
3) Che effetto avrà sulla restaurazione della governance statale nell’area e più in generale sulla geopolitica regionale la morte del presidente ciadiano Idris Debry, in uno scontro a fuoco con i ribelli del Front pour l’alternance et la concorde au Tchad (Fact) provenienti dal Sud della Libia?
4) Quest’ultimo oltre ad essere “uomo forte” della coalizione saheliana e provider di sicurezza anti-terrorismo, era anche uno scomodo partner della penetrazione cinese nell’area, come dimostrato dalla travagliata relazione tra governo e Cnpc nella gestione della raffineria di Djarmaya e della pipeline Bangor. La vicenda spingerà Pechino ad interessarsi più direttamente dell’area, e se sì, ciò avverrà esclusivamente attraverso il Minusma (il cui nuovo segretario, un politico del Benin, ha studiato in Cina) o cercando un confronto più diretto con la Francia?
Si tratta di domande aperte. Rispetto alle quali possiamo solo dare indicazioni di massima, se vogliamo più geostrategiche che geopolitiche. In primo luogo, deve essere ben presente alla diplomazia il ruolo che il Sudan in transizione è chiamato a svolgere, specie dopo la caduta di Debry, per di più considerando che Karthoum è parte sia dell’Igad, e dunque del Corno d’Africa, sia della Lega Araba. L’esperimento di transizione democratica dopo il golpe dell’aprile 2019 è ancora in corso, e il Paese è diventato meta di 1.2 milioni di rifugiati dai vicini contesti inclusa l’Africa centrale-Congo.
Si può concludere (provvisoriamente) che uno scacco francese non andrebbe a vantaggio di nessuno, se non altro per mancanza di altri provider di sicurezza esperti, ma l’attuale presenza militare-politica andrebbe vista come un catalizzatore di attenzione internazionale, di vigilanza su dinamiche che non possono essere ridotte al framework terrorismo-immigrazione-risposta securitaria. Tale duplice tentazione (“tifare” contro la Francia, magari per vederla sostituita da mercenari russi in Mali, e al tempo stesso prepararsi a fare dell’Italia un avamposto della fortezza Europa) purtroppo esiste, è innegabile, ed è trasversale a tutti i partiti e ai media.
Si tratterebbe invece di fornire un contributo complementare di dialogo interculturale per la costruzione di una governance possibile e realistica, non imperniata su concetti urbano-centrici giacobini di Stato, inattuabili in Africa occidentale (e sempre più insostenibili anche da noi, a dire il vero). In generale, la sfida del Sahel è una sfida per l’Italia: completarsi superando il suo dualismo interno, tra un Nord che ha sì realizzato la propria integrazione nell’Europa occidentale, ma negli ultimi decenni sempre più a scapito della dimensione afro-mediterranea.