I regolatori aumentano la pressione sui colossi tecnologici americani di giorno in giorno. Manca però una regolamentazione unitaria, riuscirà l’amministrazione Biden a trovare una quadra tra tutela della concorrenza e libertà d’impresa?
Anche se Big Tech sta vincendo alcune battaglie, la guerra con i regolatori americani è solo all’inizio. Parte della fortuna dei colossi tecnologici americani è stata costruita sull’inadeguatezza della legislazione vigente nel regolare la competizione dei servizi web. E per anticipare l’evoluzione di quelle leggi, che si avvicina sempre più, certe aziende stanno mettendo le mani avanti.
Martedì è emerso che Microsoft e Google non rinnoveranno il curioso patto di non belligeranza che avevano stipulato nel 2015 per chiudere una travagliatissima battaglia legale ed evitare di continuare a denunciarsi a vicenda. Il patto prevedeva che le due compagnie risolvessero internamente le eventuali diatribe ai più alti livelli, spiega il Financial Times, e poneva le basi per più collaborazione nelle aree di comune interesse (anche se entrambe le parti giurano di non averne tratto alcun vantaggio).
Odore di cartello? Difficile da definire. I sistemi operativi delle due compagnie – Windows e Android, rispettivamente – coprono quasi il 75% dell’intero mercato globale di utenti connessi a internet (dati StatCounter), miliardi di persone. Eppure si tratta di piattaforme, come nel caso di Facebook e Amazon, non-luoghi digitali dove fioriscono interi ecosistemi sotto l’egida di chi li crea (il caso Apple-Epic è emblematico). A ogni modo, Microsoft e Google hanno preferito lasciar morire il patto.
È sentire comune che queste compagnie siano forze perlomeno dominanti, se non monopoliste, nel mercato; ai regolatori non è sfuggita la strategia copy, kill, acquire (copia, uccidi, acquisisci) con cui alcune di queste hanno rinforzato la loro presa sul mercato. Però mancano le definizioni legali per tradurre l’evidenza aneddotica in azione giuridica, o addirittura per definire il mercato di riferimento. A che serve la metrica del prezzo al consumatore (utile per determinare l’esistenza di un monopolio) se i servizi sono gratuiti – e i dati del consumatore sono il prodotto?
Perciò un gruppo bipartisan di parlamentari americani ha presentato cinque diversi disegni di legge, praticamente una versione a puntate della riforma necessaria per limitare lo strapotere di Big Tech su internet come lo conosciamo. Se questi passassero, potrebbero contrarre o anche dividere le linee di business di diverse aziende Big Tech, cambiare il volto delle pratiche antitrust, impedire a queste aziende di sponsorizzare (o addirittura vendere) ii propri prodotti sulle loro piattaforme, forse bandire fusioni e acquisizioni future.
Da parte loro, le aziende nel mirino – specificamente Amazon, Apple, Facebook e Google – hanno sostenuto che una regolamentazione così aggressiva danneggerebbe l’economia e l’accesso ai servizi (gratuiti) su cui ormai si appoggiano la maggior parte degli americani.
Tra le misure proposte nei cinque ddl troviamo la definizione ufficiale di una compagnia Big Tech: 50 milioni di utenti mensili attivi negli Usa e una capitalizzazione di mercato di almeno $600 miliardi (limiti in cui rientrano tutte le aziende sopracitate). Ci sono anche gli strumenti per dividere tale compagnia, come accadde con la Standard Oil nel 1911, se questa fosse giudicata troppo grande.
C’è anche una misura che costringerebbe le aziende a rendere compatibili e interoperabili i propri servizi, per lasciare al consumatore l’agio di poter cambiare il proprio ecosistema digitale, e più poteri alle autorità antitrust per investigare le fusioni. Infine, un ddl in particolare mira a rendere illegale le operazioni in stile Amazon Basics – ossia la pratica che vede un’azienda “dominante” mandare avanti una linea propria, in potenziale conflitto con i venditori che ospita sulla piattaforma. Lo stesso potrebbe accadere ad Apple con la sua “Music” che fa concorrenza a Spotify e alle altre società attive nello streaming musicale.
“In questo momento, i monopoli tecnologici non regolamentati hanno troppo potere sulla nostra economia. Sono in una posizione unica per scegliere vincitori e vinti, distruggere le piccole imprese, aumentare i prezzi ai consumatori e far perdere il lavoro alla gente”, ha detto David Cicilline, padre del progetto e a capo della Sottocommissione per l’antitrust del Congresso. Parole che hanno preceduto di pochi giorni la nomina alla presidenza della Federal Trade Commission (Ftc), l’organo antitrust del Dipartimento di giustizia americano, della giurista e nemesi di Big Tech Lina Khan.
Quest’ultima è salita alla ribalta nel 2017 dopo la pubblicazione di un articolo sullo Yale Law Journal dal titolo “Amazon’s Antitrust Paradox”, una critica durissima allo strapotere di Amazon e alle sue pratiche anticoncorrenziali, unita a una proposta di riformulare radicalmente le leggi antitrust. Khan è stata così critica di Big Tech nel corso degli anni che Amazon stessa, oggi, ha chiesto alla Ftc di sollevarla dall’indagine per mancanza di imparzialità. La sua nomina è stata vista dai commentatori americani come un chiaro segnale della volontà dell’amministrazione di Joe Biden di stringere le maglie attorno a Big Tech.