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Se in Italia vince sempre la burocrazia. Il commento di Paganini e Morelli

Di Pietro Paganini e Raffaello Morelli

La burocrazia sfrutta il genuino e inevitabile conflitto tra il Diritto alla Riservatezza e il Diritto dei cittadini alla Trasparenza per impedire una legislazione che stabilisca quali dati i dirigenti della pubblica amministrazione siano chiamati a rendere pubblici. Il Parlamento si dimostra, ancora una volta, sottomesso e incapace

I dirigenti pubblici di fascia media non sono obbligati a rendere pubblici i propri dati, per esempio, quelli relativi al proprio reddito. Il Parlamento continua a posticipare una legislazione che per il vero aveva già votato (DLgvo 97/2016). Ma poi è intervenuto il Tar e quindi la Corte Costituzionale. Ora toccherebbe nuovamente al legislatore, che continua a procrastinare sotto il peso della lobby dei dirigenti pubblici.

Il DLgvo 97/2016 ampliando una norma precedente (DLgvo 33/2013), ha introdotto un accesso potenziato dei cittadini al conoscere tutta una serie di dati attinenti la situazione dei vertici della pubblica amministrazione. E a tal fine ha disposto che tali dati venissero resi pubblici. Ebbene, dopo cinque anni il Dlgvo in questione non è ancora pacificamente applicato.

Questa vicenda conferma il conflitto genuino e irrisolto tra il diritto alla riservatezza e il diritto dei cittadini alla trasparenza. Testimonia anche l’incapacità del Parlamento di sottrarsi al potere delle burocrazie.

L’indecisione del Parlamento è poco rispettosa del diritto del cittadino di avere regole certe a presidio della convivenza. Conferma anche la sottomissione della legge alla burocrazia.

Già nel 2016 vari dirigenti dell’ufficio del Garante per la Protezione dei dati personali ricorsero al Tar del Lazio contro la nota applicativa del DLgvo 97/2016: non sarebbe stata compatibile con la normativa europea e costituzionale.

A settembre 2017, il Tar del Lazio accoglieva il ricorso e lo rimetteva alla Corte Costituzionale.

Nel febbraio 2019 la Corte Costituzionale depositava la sentenza n. 20: si dichiarano inammissibili varie eccezioni di incostituzionalità sollevate dal TAR, infondate alcune altre e giudicato l’illegittimità costituzionale del nuovo testo del DLgvo 33/2013 nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni devono pubblicare i dati per tutti i titolari di incarichi dirigenziali anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti per legge.

Per la Corte Costituzionale occorre bilanciare due diritti:

– Diritto alla riservatezza dei dati personali (inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona);
– Diritto dei cittadini al libero accesso alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni (la trasparenza amministrativa è l’argine alla diffusione dei fenomeni corruttivi mediante il controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche).

Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali “comuni”, diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari (per cui non c’è obbligo di pubblicazione), venivano estesi ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti. Perciò tutti i titolari di incarichi dirigenziali, oltre che i titolari di incarichi politici, erano tenuti a pubblicare dichiarazioni e attestazioni relativi ai dati reddituali e patrimoniali propri e dei più stretti congiunti.

Però, osserva la Corte, sono dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato e con la necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo il rapporto di fiducia.

Da qui il suggerimento di una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione in relazione alle responsabilità e alla carica effettive dei dirigenti.

Dieci mesi dopo la sentenza della Corte, il governo Conte II e il Parlamento non hanno modificato la norma censurata, ma, con il decreto legge 162/2019, hanno assegnato un anno di tempo al Governo per recepire le indicazioni della Corte e intanto hanno sospeso fino a quel termine il potere sanzionatorio dell’Associazione AntiCorruzione.

Ma l’intero 2020 non è bastato a redigere la graduazione e così con il decreto milleproroghe sono stati dati altri quattro mesi (fine aprile 2021).
Non sono bastati neppure questi, però ora non è stata decisa una proroga. Quindi al momento si resta alla situazione che obbliga alla trasparenza solo gli alti dirigenti.

Trascorsi ventotto mesi dalla sentenza della Corte Costituzionale, l’inerzia istituzionale rende evidente il forte peso legislativo dei dirigenti non apicali (non il più alto livello ma nettamente il più numeroso) cui non è bastata la sentenza della Corte (secondo la quale non tutti i dirigenti possono essere obbligati a pubblicare i propri dati comuni) e che sperano di dilazionare il varo di una nuova norma rispettosa della sentenza ma che estende quell’obbligo a molti di loro. Fatto che scoprirebbe molti altarini.

Dal punto di vista del cittadino, è essenziale vi sia una legge che, nel rispetto della costituzionalità, estenda il più possibile l’obbligo di trasparenza nell’ambito delle burocrazie che esercitano pubbliche funzioni. Sempre. E in specie oggi che l’Ue ci chiede rigore ed efficienza nel gestire l’enorme mole di risorse messe a disposizione dell’Italia.

Chiediamo al presidente del Consiglio di interessarsi personalmente della questione per provare che anche da noi viene tenuto a bada il potere corporativo delle strutture dello Stato. Che non è professionalità.

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