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Chi ha paura del ritorno dell’inflazione

La storia economica ci insegna che al termine di una pandemia si verificano aumenti dei prezzi, anche e soprattutto per strozzature dal lato dell’offerta, mentre la domanda tenta di tornare ai livelli di consumo che precedevano la calamità. Tali strozzature cominciano a toccarsi con mano

Il manifatturiero italiano – il settore che, tutto sommato, ha meglio tenuto durante la pandemia – trema: i prezzi di alcune materie prime e soprattutto di componenti tecnologiche essenziali per la produzione industriale sono in rapida ascesa. Ciò incide in maniera significativa sui margini e mette a rischio gli equilibri costi-ricavi.

Qualche mese fa si temeva il ritorno della stagflazione, ossia del fenomeno che caratterizzò buona parte degli anni settanta del secolo scorso dopo l’infiammata dei corsi del petrolio. Ora le previsioni economiche a breve e medio termine parlano di ripresa abbastanza sostenuta dopo il crollo della produzione, dell’occupazione e dei redditi nell’ultimo anno e mezzo. La crescita potrebbe continuare se i Paesi che ristagnano dall’inizio del secolo a ragione, in gran misura, di disfunzioni strutturali, colgono le opportunità del momento per effettuare le riforme economiche ed istituzionali (ad esempio, in materia di giustizia) che da anni ne bloccano lo sviluppo.

È indubbio che è atto una nuova fase di inflazione. In maggio Cina e Stati Uniti (le due economie il cui peso orienta quello delle altre) hanno registrato tassi annui di aumento dei prezzi che non si ricordavano, almeno dal 2008 (ossia prima della crisi finanziaria di inizio secolo). In Cina i prezzi alla produzione crescono al 9% l’anno, negli Stati Uniti, quelli al consumo al 5% l’anno. In Europa, il rialzo è più contenuto: l’ultimo “Bollettino della Banca centrale europea (Bce)” lo definisce “moderato” e “temporaneo”; anche per questo motivo, all’ultima sessione del Consiglio dei Governatori della Bce giovedì scorso, si è deciso di non cambiare una virgola nelle misure in atto. Ciò non toglie che alcuni aumenti particolarmente rapidi di prodotti essenziali in un’industria trasformatrice come quella italiana abbiano implicazioni molto negative per certi comparti e certe imprese.

La storia economica ci insegna che al termine di una pandemia si verificano aumenti dei prezzi, anche e soprattutto per strozzature dal lato dell’offerta, mentre la domanda tenta di tornare ai livelli di consumo che precedevano la calamità. Tali strozzature cominciano a toccarsi con mano; ad esempio, le tariffe per i trasporti di cargo su navi transoceaniche sono quasi raddoppiate in un anno (anche a ragione dell’ingorgo nel Canale di Suez) e l’aumento dell’uso di strumenti di comunicazione ad alta tecnologia (dagli smartphones, ai tablets, ai Pc) è stato molto più rapido dalla produzione di semiconduttori, con la conseguenza che in un comparto in cui i prezzi diminuivano da anni ci sono ora segni di aumenti. Ancora più grave il settore che impiega microchip (tra cui l’industria automobilistica) perché la produzione è concentrata in particolar modo a Taiwan e non riesce a tenere testa all’aumento della domanda.

Nel mercato delle materie prime: oltre al prezzo del petrolio stanno aumentando i corsi del cobalto, del rame, del nickel e di altri metalli. L’incremento delle quotazioni del petrolio dipende dall’offerta: la decisione dell’Arabia Saudita di contenere la produzione, i ritardi dei piani d’investimento in molti Paesi produttori africani, la riduzione delle esportazioni dall’Iran. L’aumento dei corsi dei metalli, invece, è in gran misura la conseguenza di un rilancio dei programmi d’investimento in Cina, dove la pandemia è nata ma è ora circoscritta in un numero limitato di grandi città.

L’ufficio studi della Bank of England ha condotto una ricerca in cui conclude che un anno dopo la fine della pandemia si è di solito in inflazione. Un aumento rapido dei prezzi si verificò dopo la “peste nera” del tardo Medioevo: carenza di beni essenziali e corsa all’accaparramento. Un lavoro di Robert Barro e di suoi colleghi dell’Università di Harvad ha studiato meticolosamente l’inflazione che ha fatto seguito alla influenza “spagnola” del 1918-20 e che è stata una delle determinanti dell’avanzata di movimenti autoritari in numerosi Paesi europei. A queste determinanti, per così dire, “congiunturali”, si sommerebbe una determinante “strutturale”, analizzata da Charles Goodhart nel saggio The Great Demographic Reversal scritto con Manoj Pradhan. Secondo Goodhart, noto soprattutto per i suoi studi di economia monetaria, l’inflazione non sarebbe stata domata dall’abilità dei banchieri centrali ma dallo spostamento della produzione manifatturiera verso aree (principalmente la Cina) caratterizzate da popolazione giovane, addestrata e disposta a lavorare a bassi salari. Ora questa determinante si è affievolita sino a scomparire a ragione, da un lato, dell’invecchiamento della popolazione anche in Estremo Oriente e, dall’altro, della richiesta di remunerazioni più alte e di una rete di protezione sociale anche in Paesi caratterizzati da bassi salari e dalla inesistenza di un sistema di welfare.
Nel breve periodo, in Europa i segnali di aumenti dei prezzi non solo tali da dover indurre a modificare politiche monetarie e di bilancio mirate a sostenere la ripresa da una pandemia che non si è ancora completamente vinta.

Tuttavia, bisogna chiedersi nel breve e medio periodo se i focolai di inflazione non possono essere calmierati facendo ricorso ad una maggiore concorrenza e quali possono essere gli effetti sul servizio del debito della pubblica amministrazione se cominciano ad incidere sui tassi internazionali di interesse. Nel più lungo termine, dobbiamo interrogarci sul modello di integrazione economica internazionale e sulla concentrazione in pochi Paesi della produzione di beni essenziali per le nostre economie.

I primi due temi richiedono una riflessione dall’Italia e dall’Unione europea. Il terzo è dossier che l’Italia dovrebbe portare al G20.

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