La religione, per i legislatori, non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico. Non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione, scrive il teologo Simone Billeci citando Benedetto XVI
Il vivace dibattito politico venutosi a creare attorno al Ddl Zan, all’indomani delle “ingerenze” del Vaticano sul disegno di legge e dell’intervento del Presidente del Consiglio Draghi in Senato, offrono l’opportunità per riflettere su quanto stia sotteso a suddetta questione, ovvero il giusto posto che il credo religioso dovrebbe mantenere nel processo politico e il significato di una autentica laicità. E nel far ciò, ancora una volta, intendiamo ispirarci al contributo teologico offerto da Joseph Ratzinger.
Anzitutto la questione inerente al ruolo pubblico della religione. Nel campo politico, in particolare, la dimensione morale delle politiche attuate ha conseguenze di vasto raggio, che nessun governo può permettersi di ignorare. A motivo di ciò, pertanto, ci si chiede: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?
Queste questioni, a nostro avviso, ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Infatti, se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia.
Più precisamente, la questione centrale in gioco è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche?
La tradizione cattolica – come ha ricordato Benedetto XVI in occasione del viaggio apostolico nel Regno Unito nel Discorso con le autorità civili il 17 settembre 2010 – sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della Rivelazione. Secondo questa comprensione, in sostanza, il ruolo della religione nel dibattito politico “non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi”.
È, dunque, in questo processo che funziona nel doppio senso, in questo ruolo “correttivo” della religione nei confronti della ragione e in questo ruolo “purificatore” e strutturante della ragione all’interno della religione che il mondo della ragione ed il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro.
La religione, per i legislatori, in ultima istanza, non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione. La sua crescente marginalizzazione, sino ad essere relegata ad una sfera puramente privata, “sono segni preoccupanti dell’incapacità di tenere nel giusto conto non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica”.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto che ci da l’occasione di riflettere, dulcis in fundo, sul significato autentico della laicità. Anzitutto, per comprendere l’autentico significato della laicità e spiegarne le odierne accezioni occorre tener conto dello sviluppo storico che suddetto concetto ha avuto.
La laicità, in particolare, nata come indicazione della condizione del semplice fedele cristiano, non appartenente né al clero né allo stato religioso, durante il Medioevo ha rivestito il significato di opposizione tra i poteri civili e le gerarchie ecclesiastiche, e nei tempi moderni ha assunto quello di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell’ambito del privato e della coscienza individuale. È avvenuto così, dunque, che al termine di laicità sia stata attribuita un’accezione ideologica opposta a quella che aveva all’origine.
Oggi, in realtà, la laicità viene comunemente intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società e come suo confino nell’ambito della coscienza individuale. La laicità, in sostanza, si esprimerebbe nella totale separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno ad intervenire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini.
È compito, allora, di tutti i credenti, in particolare dei credenti in Cristo – come ha ricordato Benedetto XVI nel Discorso ai partecipanti al convegno nazionale promosso dall’unione giuristi cattolici italiani il 9 dicembre 2006 -contribuire ad elaborare un concetto di laicità che, da una parte, riconosca a Dio e alla sua legge morale, a Cristo e alla sua Chiesa il posto che ad essi spetta nella vita umana, individuale e sociale, e, dall’altra, affermi e rispetti la “legittima autonomia delle realtà terrene”, intendendo con tale espressione, come ribadisce il Concilio Vaticano II, che “le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare” (Gaudium et spes, 36).
Questa affermazione conciliare, anche a nostro avviso, costituisce la base dottrinale di quella “sana laicità” che implica l’effettiva autonomia delle realtà terrene, non certo dall’ordine morale, ma dalla sfera ecclesiastica. Significative, a riguardo, le parole di Benedetto XVI: “Non può essere pertanto la Chiesa a indicare quale ordinamento politico e sociale sia da preferirsi, ma è il popolo che deve decidere liberamente i modi migliori e più adatti di organizzare la vita politica. Ogni intervento diretto della Chiesa in tale campo sarebbe un’indebita ingerenza”.
Alla luce di queste considerazioni è evidente come non è certo espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo, l’ostilità a ogni forma di rilevanza politica e culturale della religione. Come pure non è segno di sana laicità il rifiuto alla comunità cristiana del diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi più che mai interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani. “Non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell’attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell’affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino”.