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Imparare dalla pandemia. Da dove partire per ripensare la globalizzazione

Le catene di offerta sono diventate un grande guazzabuglio anche perché la pandemia ha interrotto o ritardato produzioni ed ha comportato difficoltà nei trasporti, nello attraversamento di frontiere e nella logistica in generale. Partire da qui per ripensare la globalizzazione, l’Italia può iniziare a farlo grazie alla presidenza del G20

Tra i tanti effetti economici della pandemia poco si parla della complicazione negli approvvigionamenti nel funzionamento di industrie, specialmente quella automobilistica. Circa trenta anni fa, il settore giapponese dell’auto introdusse il metodo del just-in-time in base al quale le componenti arrivano in fabbrica esattamente al momento in cui c’è esigenza di montarle, eliminando, o almeno minimizzando, la esigenza di tenere ed immagazzinare scorte.

Dal settore dell’auto, il just-in-time si è esteso a numerosi altri settori: dalla moda all’alimentare, al farmaceutico e via discorrendo. Il just-in-time non riduce solo i costi di magazzinaggio ma consente anche e soprattutto di adattare meglio le produzione ai mutamenti dei gusti, anche piccoli, dei consumatori.

La pandemia ha avuto implicazioni gravissime. In primo luogo, poche settimane dopo lo scoppio della crisi sanitaria ci si è accorti che materiali medici essenziali (dai ventilatori alle mascherine) non erano disponibili. Ci si era abituati ad averli just-in-time in caso di occorrenza e si era diventati quasi avvezzi che dette occorrenze erano rare. Tanto che soprattutto per i beni a basso valore aggiunto (come le mascherine) la manifattura era stata delocalizzata in Paesi in via di sviluppo (in primo luogo proprio in quella Cina da dove veniva il virus). Si ricorderà il caos della primavera 2020, il pullulare di intermediari di vario tipo, la consegna anche di materiale inutilizzabile. Questi fatti, oggetto anche di cronache giudiziarie, avrebbero dovuto indicare, già allora, che in tempi eccezionali (come gli attuali in cui il mondo è colpito da eventi inimmaginabili) just-in-time vuol dire never-in-time. Willy C. Shih, professore di commercio internazionale alla Harvard Business School, dice eloquentemente che just-in-time arriva “troppo tardi”.

Le catene di offerta sono diventate un grande guazzabuglio anche perché la pandemia ha interrotto o ritardato produzioni ed ha comportato difficoltà nei trasporti, nello attraversamento di frontiere e nella logistica in generale. Il comparto più colpito è proprio quello dove il just-in-time è stato inventato: la metalmeccanica ed in particolare l’automobile di un certo pregio. Mancano o non arrivano computer chip la cui produzione è ora essenzialmente a Taiwan ed in Corea. Si è costretti a bloccare le catene di montaggio in Paesi così differenti e così distanti come l’India, il Brasile e gli stessi Stati Uniti.

Sarebbe errato pensare che si tratti solo di costruire di nuovo magazzini di stoccaggio che si erano demoliti perché il just-in-time non li rendeva (o sembrava non renderli) più necessari ma di ripensare la globalizzazione.

Compito che spetta in gran misura all’Italia che ha l’onore e l’onere di presiedere il G20

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