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Facebook non è un monopolio. Lo schiaffo alla Ftc e il futuro dell’Antitrust

La decisione del giudice Boasberg è un duro colpo per il fronte (transatlantico) che spinge per regolare l’economia digitale e getta luce sull’inadeguatezza delle leggi antitrust di fronte alle Big Tech. Ora Lina Khan, nuovo capo della Ftc, ha trenta giorni per tracciare la strada

Ieri a Facebook hanno stappato lo spumante, vedendo la propria capitalizzazione di mercato superare i mille miliardi di dollari per la prima volta. Le azioni del colosso tech sono balzate del 4,2% in seguito alla decisione del giudice James Boasberg (corte distrettuale di D.C.) di archiviare in un colpo solo due cause antitrust cruciali, portate avanti rispettivamente dalla Federal Trade Commission (l’agenzia nazionale di tutela dei consumatori e della concorrenza) e da una coalizione di 46 stati americani.

L’accusa sosteneva che Facebook avesse abusato della propria posizione monopolistica nel mercato per acquisire o demolire i concorrenti. Entrambe citavano l’acquisizione di Instagram ($1 miliardo) e WhatsApp ($19 miliardi) da parte di Facebook, rispettivamente nel 2012 e nel 2014. Addirittura, la Ftc pressava perchè Big F si dividesse dagli altri servizi e venisse limitata nelle sue future attività di acquisizione.

La compagnia, da parte sua, indicava la presenza di entità concorrenti come TikTok e sottolineava che i regolatori non fossero riusciti a dimostrare come i propri servizi, gratuiti, danneggiassero i consumatori. Probabilmente nemmeno loro si aspettavano che gli andasse così bene, vista l’esistenza di diverse cause simili e le antenne dei regolatori di tutto il mondo puntate sulle migliaia di miliardi fatturati dai colossi del web.

Il difetto fatale delle cause, alla fine, si è rivelato essere il loro impiego della parola “monopolio”, che in America è ben definita sia legalmente che economicamente. Si tratta del “il potere di alzare i prezzi, in modo redditizio, o escludere la competizione in un mercato propriamente definito”, ha ricordato Boasberg. Nello specifico, e per quanto possa sembrare paradossale, è difficile dimostrare che Facebook (la trentaquattresima compagnia più grande al mondo per fatturato) controlli oltre il 60% del mercato dei social media in America.

Perciò le accuse non sono state sostanziate a sufficienza, “quasi come se [la Ftc] si aspetti che la corte riconosca l’opinione diffusa che Facebook sia monopolista”, ha rimarcato Boasberg, il quale ha pure ammesso che le cause avrebbero avuto più possibilità di successo in industrie più tradizionali, ma che queste “non [hanno] a che fare con un né mercato ordinario, né intuitivo”.

La Ftc ha trenta giorni per riformulare l’accusa e ripresentarla, mentre il procedimento portato avanti dalla “coalizione” di stati è stata definitivamente chiuso (Boasberg ha asserito che mentre la prima è legittimata nel sindacare le acquisizioni, i secondi si sono mossi troppo tardi). Facebook ha reagito con gioia, mentre i legislatori su entrambe le sponde del Congresso hanno indicato il verdetto come prova del fatto che le leggi antitrust, vecchie di oltre cento anni e ancorate al prezzo al consumo, vadano riformulate.

Entrambe le cause si collocavano alla frontiera di uno sforzo più grande da parte dei regolatori, in America come altrove, di limitare lo strapotere di Big Tech e regolamentare l’ecosistema fumoso dell’economia digitale. Va letta in questo senso la recente nomina al vertice della Ftc della giovane e agguerrita giurista Lina Khan, l’esperta di antitrust che dalle colonne del Yale Law Journal aveva criticato il potere anticompetitivo delle piattaforme Big Tech. Riformulare la causa contro Facebook non sarà solo la sua prima sfida importante, ma rivelerà la direzione scelta dal Dipartimento di Giustizia per fare fronte a Big Tech.

Anche in Europa le corti si sono rivelate il miglior alleato di Big Tech. L’anno scorso una corte europea ha annullato l’azione da €13 miliardi portata avanti dalla commissaria all’antitrust Margrethe Vestager contro le pratiche di elusione fiscale di Apple. Lo stesso è accaduto a maggio con Amazon contro l’ordine di pagare €250 milioni in tasse. Nel mentre lo sforzo dell’antitrust tedesca di limitare l’acquisizione di dati da parte di Facebook è in stallo, e Google ha fatto appello contro le multe europee nell’ordine dei miliardi.

C’è consenso su entrambe le sponde dell’Atlantico riguardo alla necessità di cambiare il quadro legale inerente all’economia digitale. Anche i colossi tecnologici non rifiutano l’idea di avere a che fare con un regime di tassazione (e legislativo) più unitario, anziché doversi districare tra le centinaia di legislazioni locali, regionali, nazionali, sovranazionali. Chi ci lavora assicura che i negoziati per la tassazione digitale a livello Ocse e G20 procedono spediti dopo il blocco quadriennale causato dal protezionismo Donald Trump. Ora che tra Usa ed Europa c’è unione di intenti a livello politico, si tratta di concretizzare.


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