Ospite del primo seminario della quindicesima edizione della TOChina Summer School, Patricia Thornton (Oxford) spiega cosa (non) ha capito l’Occidente del Partito comunista cinese (Pcc). Dagli iscritti ai rapporti con le ong fino all’ideologia, guida alla macchina che comanda un popolo di un miliardo e mezzo di abitanti
Nonostante diversi accademici e ricercatori occidentali abbiano spesso teorizzato il declino del Partito comunista cinese (Pcc), specialmente dopo gli eventi di Tiananmen e l’entrata di petto della Cina nel mercato globale, il Pcc sta per celebrare il centenario dalla sua fondazione senza mostrare reali segni di cedimento. Non solo, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, la leadership cinese ha annunciato di aver sconfitto la povertà assoluta nel paese.
In apertura della quindicesima edizione della TOChina Summer School, Patricia Thornton, Associate Professor presso la Oxford University, suggerisce che parte dell’ambiente accademico occidentale, soprattutto di area anglofona, sia caratterizzato da “un’incomprensione sistemica del Partito comunista cinese”, basato in parte anche su fraintendimenti di natura semantica.
Citando un editoriale del Global Times, Thornton spiega come non esiste nell’immaginario politico cinese un corrispettivo per il concetto occidentale di “partito politico” e che, viceversa, non esiste in inglese (o meglio, nel linguaggio politico di matrice occidentale) un termine che rappresenti a pieno la natura del Partito comunista cinese, caratterizzato da continui sviluppi e adattamenti. Diventa perciò necessario innanzitutto leggere la storia e i parametri politici cinesi “secondo i canoni cinesi” e instaurare un dialogo il più oggettivo possibile per poter comprendere il funzionamento della ormai seconda potenza globale.
Il Partito comunista cinese basa la propria legittimità, e resilienza, su controllo coercitivo, dinamiche interne che favoriscono una cooptazione selettiva e una coordinazione mirata tra forze politiche e sociali che permetta la ridistribuzione delle risorse. Tre sono poi gli elementi fondanti del PCC: l’esperienza dell’Unione Sovietica, le idee del leader rivoluzionario Sun Yat-Sen (1866-1925) sul ruolo del partito nella costruzione dello Stato e la cultura tradizionale cinese. Thornton sottolinea anche come il Partito comunista cinese si sia formato come un “sovrapartito” a capo di una coalizione di partiti minori, che esiste al di fuori dei limiti parlamentari e che si prefigge di rappresentare il “popolo rivoluzionario” e i suoi interessi nella sua evoluzione storica.
Thornton ammette che, con queste condizioni, si possano creare delle divergenze sia nei rapporti tra Stato e partito, che tra partito e popolo. E non si esclude che tali divergenze non siano già in essere. Tuttavia, nonostante la storia della Repubblica Popolare Cinese mostri che i rapporti di forza tra partito e Stato abbiano subito diverse variazioni, ad oggi il Partito comunista controlla tutti i rami del governo (esecutivo, legislativo, giuridico, militare) e “in ogni posto di lavoro e ufficio è presente un comitato di partito, incluse le imprese a capitale estero e private”. Inoltre, ogni organizzazione alla quale partecipino almeno tre membri di partito ha il dovere di instaurare una filiale di partito indipendente. Alle organizzazioni sociali (Ong o associazioni di volontariato), invece, è richiesto di includere al proprio interno una cellula di partito che svolga attività di “Party-building”, a prescindere dalla presenza o meno di membri del Pcc al proprio interno.
Secondo Thornton, il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, però, non si baserebbe esclusivamente sull’accentramento del potere nei quadri della leadership comunista, ma anche su una rinascita dell’ideologia del partito. Per fare ciò, al controllo coercitivo e alla cooptazione di gruppi affini è necessario affiancare una “cooperazione tattica”. Ovvero, invitare ampie fasce della popolazione rurale o periferiche a partecipare alla “costruzione di una modernità socialista” attraverso i cosiddetti “New Era Civilization Practice Centres” (centri per la pratica di civiltà della nuova era). Si tratta di centri distribuiti in modo capillare nelle province, nei quartieri e nei villaggi, gestiti da volontari non appartenenti al partito che si occupano di distribuire servizi basilari e educare la popolazione al pensiero della leadership. Il ruolo di questi centri sembrerebbe, dunque, quello di “sostituire la società civile con il Partito, o la sua agenda”, in modo da creare un’interazione positiva tra il governo, le regolamentazioni sociali e l’autonomia dei residenti sotto la guida del Pcc.
In effetti, sotto la presidenza di Xi Jinping, il 6% della popolazione adulta del paese è iscritto al Partito Comunista Cinese, ma nel 2019 ben il 14.9% della popolazione totale era coinvolto in attività di volontariato per diffondere e supportare il “pensiero di Xi”. Thornton suggerisce che questa potrebbe essere una chiave di lettura della resilienza del regime comunista in Cina: l’ideologia del leader non è (solo) un’imposizione a cui si deve fedeltà, bensì l’élite di partito e le masse popolari compartecipano alla creazione e alla divulgazione delle idee ad essa collegate.