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Grillo silura Conte e riavvolge il nastro. La bussola di Ocone

L’aspetto paradossale di tutta questa vicenda è che, nonostante la quota non indifferente di “populismo”, e cioè di irriverenza e imprevedibilità politica, che il Garante porta in dote, è il “populista” Grillo e non il “moderato” Conte che garantisce oggi stabilità al governo Draghi. La bussola di Corrado Ocone

Riavvolgiamo il nastro: si ricomincia da dove eravamo rimasti, quattro mesi fa. Cioè prima che il padre-padrone, nonché cofondatore, sedicente “Garante”, del Movimento Cinque Stelle decidesse di sconfessare quanto precedentemente e collegialmente deciso affidando la guida della sua creatura non a un Comitato direttivo di cinque membri da eleggere su Rousseau ma a Giuseppe Conte, che nel frattempo aveva perso la poltrona a Palazzo Chigi.

Questo il senso e la direzione indicati dal Capo sul blog ai suoi. Ha vinto il cuore e non la testa, il vecchio rispetto al nuovo, la nostalgia di un passato inservibile rispetto a un futuro radioso, come ha cercato di avvalorare la retorica contiana; oppure quel nuovo non era poi così nuovo, ma addirittura “seicentesco”, e non teneva in conto della “specificità” pentastellata, come ha ribattuto a stretto giro l’Elevato? E poi che farsene, ha fatto presente Beppe Grillo, di un Conte che non ha né visione ideale né capacità manageriali, cioè che non può dare né un contributo di idee né uno organizzativo alla macchina?

Nel Movimento, e anche fuori, forse si discuterà di questo siluramento nei prossimi giorni, ma il dato politico mi sembra evidente e coincide con quello personale. Grillo, in effetti, ha capito che Conte ha cercato di farsi quel “partito personale” a cui da tempo aspira con il brand ancora spendibile e le risorse della creatura da lui creata. E ha cercato di farlo, in questi mesi, in due modi e tempi: dapprima, eliminando l’ostacolo Casaleggio, cioè “uccidendo” il “figlio” di uno dei due fondatori approfittando di certi dissidi maturati con l’altro; poi tentando di ridimensionare l’altro fondare, cioè lui stesso, visto e vissuto anch’egli come ostacolo.

Per un così concepito “partito unipersonale”, come Grillo lo ha definito, non poteva esserci spazio. Tanto che Conte, capitolo, come ultimo azzardo ha provato finalmente il “parricidio”. Mossa avventata, che non avrà esiti, perché sottovaluta l’attaccamento quasi morboso dei grillini al comico nonostante e oltre i mugugni, le rivalità, le divisioni intestine. “Non conosce la nostra storia”, ha detto Grillo. E avrà pensato che non basta studiarla, come Conte ha detto di aver fatto: il collante del gruppo è infatti proprio il rapporto extra o pre-razionale che i fratelli, pur Caino l’uno all’altro, hanno col Padre. Così come il Padre deve averlo avuto col suo fratello d’armi, Gianroberto, tanto da non aver avuto problemi a chiamare il figlio Davide nonostante qualche dissapore e a farlo rientrare in gioco.

Ed è questa, forse, la sconfitta più cocente di Conte, che di aver “risolto” la vicenda Rousseau ha fino a ieri menato vanto. Ora, l’aspetto paradossale di tutta questa vicenda è che, nonostante la quota non indifferente di “populismo”, e cioè di irriverenza e imprevedibilità politica, che il Garante porta in dote a un Movimento che pure si è ampiamente istituzionalizzato in questi anni; nonostante ciò, è il “populista” Grillo e non il “moderato” Conte che garantisce oggi stabilità al governo Draghi. E paradosso per paradosso, la stessa riforma della giustizia affidata alla ministra Cartabia, che è la parte più delicata e l’ostacolo più serio sulla strada della “ripartenza”, potrà avere un esito positivo solo con il suo aiuto. Un aiuto che di fatto Conte, stretto fra l’ideologo Travaglio e il mentore Bonafede, avvolto nella rete comunicativa di Casalino, non avrebbe potuto garantire.

Che ne sarà ora dell’ex presidente dl Consiglio non è difficile prevederlo. Le vie sembrano infatti ridursi a due: o il ritiro a vita privata, casomai con la prospettiva di diventare (in Italia tutto può succedere) una “riserva della Repubblica”; o il tentativo, tutto in salita per non dire improbo, di farsi un “partito personale” di cui, fra l’altro, non si intravedono nemmeno i concreti spazi politici.


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