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Israele-Palestina, chi e perché volta le spalle a Netanyahu. Scrive Pennisi

Il New York times è stato una delle voci più forti a favore della creazione dello Stato di Israele dopo la seconda guerra mondiale e della difesa della sua esistenza successivamente. Tuttavia, le vicende delle ultime settimane lo hanno indotto a cambiare linea. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Pochi credo abbiano notato il drastico mutamento della stampa americana e britannica nei confronti di Benjamin Netanyahu e del suo governo dopo i recenti scontri – si dovrebbe dire una vera e propria guerra – delle forze armate d’Israele contro guerriglieri e soprattutto civili nella “striscia di Gaza”. Il dato più eloquente è il New York Times International del 31 maggio (giorno in cui ad Israele si stava preparando un nuovo governo, dopo oltre un decennio con Netanyahu – lasciato ai suoi guai giudiziari – e con la partecipazione di un partito arabo che dovrebbe esprimere un ministro). La prima pagina aveva 64 foto a colori dei 64 bambini uccisi dai caccia israeliani e le due pagine centrali altre foto in bianco e nero dei bambini con cenni alle loro brevissime vite stroncate dall’aviazione di Israele. Il servizio era accompagnato da commenti durissimi sullo spregio delle regole di guerra (a tutela dei civili), del diritto internazionale (per i 450.000 israeliani “insediatesi” in territorio palestinese), e dei diritti umani di base.

Veniva anche ricordato che la Corte Penale Internazionale riconosce la giurisdizione dei giudici dell’Aja sui territori palestinesi occupati da Israele. La Pre-Trial Chamber, una sorta di Tribunale Preliminare della Corte Penale Internazionale, ha riconosciuto la Palestina come Stato per quanto riguarda lo Statuto di Roma, per il semplice fatto che ne è Stato Parte contraente. Di conseguenza, la Corte ha giustamente confermato la propria giurisdizione sul territorio dello Stato di Palestina, composto dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e dalla Striscia di Gaza. In base a questa decisione, la Corte può ora procedere rapidamente con le indagini, i procedimenti e le punizioni di qualsiasi crimine sotto la propria giurisdizione. Questi crimini includono tutti e ciascuno dei crimini di guerra e contro l’umanità presentati alla Corte dalla Palestina. Ciò significa che le sue sentenze possono privare della libertà Netanyahu ed alti ranghi dell’esercito israeliano. Ciò ha poche implicazioni per Netanyahu, il quale difficilmente uscirà da Israele, ma può colpire i suoi generali, che rischiano di essere arrestati (come avvenne ai “signore della guerra” dei conflitti balcanici negli Anni Novanta) se vanno all’estero. In breve, per la redazione ed i lettori del New York Times Palestinian lives do matter.

Il New York Times non può certamente essere accusato di antisemitismo. Tanto la proprietà quanto la direzione sono saldamente nelle mani della famiglia Sulzberger, autorevole espressione della élite ebraica newyorkese. È stato diretto da Arthur Hays Sulzberger dal 1935 al 1961 e successivamente da suoi figli e nipoti. È stato una delle voci più forti a favore della creazione dello Stato di Israele dopo la seconda guerra mondiale e della difesa della sua esistenza successivamente. Tuttavia, le vicende delle ultime settimane lo hanno indotto a cambiare linea. Ciò vuole dire prendere seriamente le distanze da un governo che persegue strategie inaccettabili nel consesso delle Nazioni. La linea del New York Times è nota: attuare gli accordi di Oslo ossia due Stati e un regime internazionale per Gerusalemme.

Queste prospettive – è interessante notarlo – non sono considerate più fattibili, ragione della “presa di potere” israeliane su Gerusalemme Est e degli insediamenti, da uno studio nell’ultimo fascicolo di The Economist: il settimanale britannico preconizza un unico e solo Stato in cui i diritti dei palestinesi, che sono la metà della popolazione, vengano “gradualmente” equiparati a quelli dei cittadini di religione ebraica. Non credo che la comunità internazionale possa permettere una “equiparazione graduale”: ci provò la Repubblica del Sud Africa e sappiamo come andò a finire. Un regime di apartheid sarebbe contrario ai principi di base del diritto internazionale, anche ove Israele accettasse di essere posto sotto la tutela di un gruppo di Paesi incaricati di vigilarne la transizione.

Queste sono indicazioni che qualcosa importante si sta muovendo dopo gli eccidi della settimana scorsa che alcuni considerano simili a quelli in Ruanda nell’Aprile 1994. Sarebbe interessante capire dove si colloca l’Unione europea e dove l’Italia.

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