Il nuovo progetto spaziale di Elon Musk assomiglia tanto alla base che, per prima, l’Italia realizzò negli anni 60 nel mare del Kenya, a Malindi. C’è però qualcosa di molto diverso. Lo spiega Marcello Spagnulo, ingegnere aeronautico, esperto aerospaziale e presidente del Marscenter
“Deimos, lo spazioporto nell’oceano è in costruzione per essere pronto a lanciare dal prossimo anno”. Così, con un consueto cinguettio via Twitter, Elon Musk ha confermato domenica i piani per la nuova base spaziale targata SpaceX. Il miliardario visionario ha ormai abituato il pubblico internazionale a “sparate” spaziali, incassando spesso poca credibilità. Eppure, ha anche abituato al successo di molti suoi progetti, dalla riutilizzabilità dei razzi (ormai assodata) alle navicelle con cui gli Stati Uniti sono tornati a spedire dal territorio nazionale gli astronauti oltre l’atmosfera. Nei piani di Musk, Deimos servirà soprattutto per StarShip, la navetta-razzo già scelta dalla Nasa per riportare l’uomo (e la prima donna) sulla superficie della Luna, il cui prototipo numero undici ha da poco completato un test d’atterraggio di successo. Per capire quanto sia credibile il progetto abbiamo raggiunto Marcello Spagnulo, ingegnere aeronautico, esperto aerospaziale e presidente del Marscenter.
Musk ha presentato a suo modo la costruzione di una piattaforma di lancio offshore. Nuovo progetto visionario di difficile realizzazione o qualcosa di più?
Direi che il progetto in sé non è visionario, ma il suo utilizzo sì. Mi spiego. Negli anni Sessanta il primo Paese che progettò e realizzò una piattaforma marittima per lanci spaziali fu l’Italia. Il professor Luigi Broglio, con il quale ho avuto il privilegio di studiare alla Sapienza di Roma negli anni Ottanta, realizzò la base di lancio al largo di Malindi nel 1967 riadattando una piattaforma per l’estrazione del petrolio donata dall’Eni di Enrico Mattei. Quello sì fu un progetto da tenere a lezione anche per il presente.
E Deimos?
L’aspetto rivoluzionario di SpaceX è che queste piattaforme dovrebbero essere sia per il lancio che per l’atterraggio, quindi dovrebbe costituire l’ossatura iniziale di una serie di spazioporti (all’inizio marittimi poi magari anche su terraferma) per il trasporto orbitale e sub-orbitale di merci e persone. E probabilmente non dovrebbero essere piattaforme fisse, come quella di Malindi, ma mobili. Questo darebbe un ulteriore vantaggio strategico.
Quale è l’aspetto più “rivoluzionario” dei vari progetti targati SpaceX?
A mio avviso è la filosofia di progetto. Ciò che sembra fantascienza, SpaceX prova a realizzarlo con un approccio make-and-test, cioè costruisce e prova. Questo spiega perché a ogni insuccesso SpaceX continua imperterrita a costruire prototipi e a testarli. È come se provassero le astronavi così come si provano le auto su un autodromo, a ritmo continuo.
Una rivoluzione a cui guarda anche l’Europa. Il Vecchio continente a che punto è?
Distinguiamo le cose: rispetto alla “mentalità SpaceX”, l’Unione europea è qualche decennio indietro; ma a livello tecnologico no. Può sembrare un discorso di maniera, ma è vero.
Rigiro la domanda: cosa manca al Vecchio continente per avere una sua SpaceX?
Un mix di cose. Sicuramente mancano fondi privati per finanziare le start up che devono attraversare la cosiddetta Death Valley, cioè quel periodo critico che attraversano prima di diventare vere e proprie imprese e avviare il go-to-market. Agli inizi anche Elon Musk se l’è vista brutta, nonostante l’appoggio del Pentagono e della Nasa. Se fosse fallito, avrebbe prodotto un bel buco finanziario in qualche grande fondo di investimento. Infatti, negli Stati Uniti c’è anche l’aspetto di supporto istituzionale all’imprenditorialità che in Europa è carente.
Pure la Cina cerca il suo Elon Musk…
Sì, e sta facendo passi da gigante in questa direzione. Non tarderà molto prima di vedere giovani imprese private cinesi lanciare prodotti spaziali. Per quanto possano definirsi private, ovviamente.