Per tornare a contare in Libia l’appoggio da parte degli Stati Uniti non è sufficiente. L’Italia deve ritrovare al più presto un’entente cordiale con alcuni attori chiave della regione, a cominciare dagli Emirati Arabi Uniti. Il commento di Leonardo Bellodi
A fine febbraio 2011, poche settimane dopo l’inizio della rivoluzione libica, si tenne una riunione nella sala vede di Palazzo Chigi presieduta da Gianni Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Tutte le istituzioni che avevano voce in capitolo sulla Libia erano state convocate a massimi livelli. Scopo della riunione era quella di assegnare a tutti i partecipanti compiti ben precisi e coordinare le rispettive azioni.
Cominciarono missioni a Bengasi, sede del National Transitional Council, il governo provvisorio delle Cirenaica che si contrapponeva a quello di Gheddafi ancora ben saldo a Tripoli. La scelta dell’Italia non fu facile: il leader era ben lontano dall’essere sconfitto e minacciava di vendicarsi congelando la attività economiche italiane presenti in Libia. L’ Italia passò comunque il Rubicone dando pieno appoggio all’NTC.
Cominciò una fase felice, se così si può dire, di collaborazione con il governo degli insorti che vedeva l’Italia in prima linea.
Nel novembre dello stesso anno, con la morte di Gheddafi, si aprì una fase caratterizzata da grande ottimismo nel Paese. La società civile cominciò ad apparire nel 2012 riprese a gran ritmo anche la produzione di petrolio e gas. Con Gheddafi la Libia produceva circa 1.8 milioni di barili equivalenti di petrolio, scesi a quasi 0 nel 2011. Tra il 2012 e 2103 la produzione risalì a 1.2 milioni di barili. Un vero miracolo.
Questa ventata di ottimismo non durò purtroppo per molto. La produzione di idrocarburi calò drasticamente e cominciarono in Libia a padroneggiare milizie che i vari governi succedutisi non riuscivano a contrastare. Interessi esteri cominciarono a far sentire la propria voce in Libia e ad appoggiare le varie fazioni. Qatar, Emirati, Egitto, Turchia e da ultimo la Russia erano, e in parte sono, presenti in Libia. Il ruolo dell’Italia dalla fase di leadership del 2011-2012 cominciò ad affievolirsi complice anche un certo disallineamento con l’intervento francese nel Paese.
Da un ruolo di primi attori, gli eventi hanno ci hanno attributo parti sempre minori.
Negli ultimi mesi la situazione sta però cambiando, complice un combinato concorso di circostanze. Gli attori stranieri hanno una presenza meno aggressiva nel Paese, Haftar di fatto non è riuscito nell’impresa di conquistare la Tripolitania, la popolazione libica è stanca di anni di guerra. E la comunità internazionale ha un rinnovato interesse, questa volta fattivo, nel trovare una via di uscita dalla crisi libica. Ed è altrettanto chiaro che la comunità internazionale, e in primis gli Stati Uniti, vedono in Mario Draghi la persona che, come nel 2011, può essere colui che guida lo sforzo.
Non è un caso che la prima missione internazionale di Draghi sia stata in Libia, e che Di Maio sia stato il primo ministro degli Esteri ad incontrare Abdulhamid Dbeibah a Tripoli il 21 marzo di quest’anno.
Non vi è dubbio che il segretario di Stato Antony Blinken, in questi giorni a Roma, avrà al primo posto della sua agenda la situazione libica con una possibile investitura del nostro paese nel ruolo di leadership della coalizione. In tal senso Blinken si è già speso in una dichiarazione il 13 aprile.
La decisione, se confermata, di inviare un piccolo ma significativo contingente militare può senza dubbio rafforzare il nostro ruolo nel paese.
Ma l’appoggio da parte degli Stati Uniti non è sufficiente. C’è bisogno di ritrovare una entente con alcuni attori internazionali e in primis con gli Emirati Arabi Uniti. La notifica del non rinnovo dell’autorizzazione a utilizzare la base di Al Minhad, strategica per la nostra presenza nella Regione e per le operazioni di evacuazione della nostra base di Herat in Afghanistan, la mancata autorizzazione del sorvolo dello spazio aereo emiratino del volo militare che stava portando giornalisti italiani proprio ad Herat per assistere all’ammaina bandiera non possono essere considerati semplici screzi.
Sono il sintomo di un grave malessere che trova le radici nella vicenda Ethiad-Alitalia, nell’inspiegabile embargo decretato notte tempo sulle esportazioni di armi negli Emirati (che hanno anche colpito la capacità di volare per la pattuglia acrobatica UAE che utilizza aerei di fabbricazione italiana).
Mario Draghi è condizione necessaria ma non sufficiente per recuperare una credibilità internazionale che sembra essere stata persa per mancanza di una chiara linea di politica estera.