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La rivoluzione verde non passa dallo Xinjiang. Biden sfida Xi

Rivoluzione green sì, lavoro forzato no. L’amministrazione Biden mette nella lista nera alcune aziende cinesi leader nella produzione di componenti per i pannelli solari. Ora palla all’Europa…

Il dipartimento del Commmercio degli Stati Uniti ha aggiunto cinque società cinesi nell’elenco delle entità (una sorta di lista nera) che accettano o utilizzano il lavoro forzato nel quadro della campagna di repressione della Repubblica popolare cinese contro i gruppi di minoranza uigura nella regione autonoma dello Xinjiang. Le entità aggiunte all’elenco sono: Hoshine, Daqo New Energy, East Hope, Gcl New energy e l’organizzazione “paramilitare” Xpcc, ritenuta dagli analisti alla stregua di uno Stato parallelo.

LA DECISIONE DEL TESORO USA

“La decisione limiterà l’accesso a prodotti, software e tecnologia soggetti alle Export Administration Regulations e rientra nel quadro dell’impegno di Washington per contrastare la campagna di repressione cinese verso i gruppi di minoranza religiosa ed etnica”, si legge nel comunicato del dipartimento guidato da Janet Yellen, già a capo della Federal Reserve.

“Il dipartimento del Commercio continuerà a intraprendere un’azione decisa e decisa per ritenere responsabili la Cina e gli altri autori di violazioni dei diritti umani”, prosegue la nota. L’elenco è uno strumento utilizzato per limitare l’esportazione, la riesportazione e il trasferimento di articoli affiliati a persone (individui, organizzazioni, società) che si ritiene coinvolte o che pongono un rischio significativo di essere coinvolto, in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti.

LA REAZIONE CINESE

Ill portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha dichiarato che Pechino assumerà “tutte le misure necessarie” per proteggere i diritti e gli interessi delle sue aziende. Inoltre, ha respinto nuovamente le accuse di genocidio e lavori forzati nello Xinjiang, definendole menzogne occidentali.

COSA C’ENTRA L’AMBIENTE?

Alcune delle aziende finite nella lista nera sono tra i più importanti produttori di silicio monocristallino e polisilicio, fondamentali per la produzione di pannelli solari a cui gli Stati mondiali non possono rinunciare se vogliono raggiungere i loro obiettivi sull’abbattimento delle emissioni. Per avere un’idea dell’importanza del mercato cinese base pensare che l’80% dell’offerta globale di polisilicio arriva dalla Cina. In particolare, il 50% del totale mondiale dallo Xinjiang, regione nord-occidentale cinese, fondamentale snodo della Via della Seta vista la sua posizione geografica.

IL CONTESTO GEOPOLITICO

Non è un caso, dunque, se le fonti citate dall’agenzia Reuters sottolineano come la mossa dell’amministrazione statunitense non sia in conflitto con gli obiettivi climatici del presidente Joe Biden e con il sostegno all’industria solare nazionale. Inoltre, hanno definito la scelta come “naturale continuazione” dell’accordo raggiunto in occasione del recente G7 di Carbis Bay per contrastare il lavoro forzato dalle catene di approvvigionamento. Parole che trovano conferme nel “Fact sheet” sul lavoro forzato nello Xinjiang diffuso dalla Casa Bianca dopo la stretta del dipartimento del Commercio, in cui si sottolinea la mobilitazione del dipartimento della Sicurezza interna e di quello del Lavoro, oltre al Commercio e alla U.S. Customs and Border Protection.

GLI USA E GLI ALTRI

La questione non può, dunque, che chiamare in causa anche l’Unione europea, a partire dalla Germania, che in queste ore guarda con interesse alla possibilità, rivelata dal Financial Times, che l’amministrazione Biden apre una nuova fase con la Cina dopo cinque mesi di linea dura.

Nelle scorse settimane, su Formiche.net avevamo provato a rispondere a una domanda: come si “ripuliscono” le filiere produttive dal lavoro forzato? Ecco cosa scrivevamo.

Esistono soluzioni oltre all’esercizio di pressioni, per via commerciale o governativa, sulle controparti cinesi. 

Secondo t i governi occidentali dovrebbero introdurre tariffe sulle celle solari in base al “lavoro sporco” dietro alla loro realizzazione. Questo renderebbe meno competitivi i prodotti cinesi e potrebbe essere accompagnato da incentivi per le compagnie occidentali, cosicché queste possano investire nel settore, recuperando la statura industriale persa negli ultimi vent’anni.

Alcuni europarlamentari (e il governo tedesco) stanno spingendo per delle leggi che costringerebbero le compagnie europee a dimostrare che le loro filiere di approvvigionamento siano libere da pratiche di lavoro forzato. Guardando più in là, la Commissione europea sta finanziando un progetto, NextBase, per studiare pannelli più efficienti di quelli prodotti in Cina.

A meno di una miracolosa conversione umanitaria del governo cinese, la soluzione a lungo termine può passare solo dal reshoring della produzione di tecnologie strategiche per il futuro. L’energia solare è tra i cavalli su cui sta puntando l’Occidente (specie l’Ue e l’America di Joe Biden) per sostenere la transizione sostenibile e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Ma la strada per un mondo più ecologico non può continuare a passare dalla violazione di diritti umani.



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