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Partito unico a destra? Zacchera spiega perché no

Un conto possono essere le intenzioni dei vertici e un altro il sentimento degli iscritti e dei dirigenti locali dove il senso di appartenenza o le cicatrici di litigi antichi e recenti contano più di quanto si pensi. Utile metodo per raccogliere le diverse sensibilità elettorali, “fare il pieno” di consensi e poi cercare (e non sarà facile) di governare insieme. Il commento di Marco Zacchera

Silvio Berlusconi insiste da settimane: serve un partito unico nel centro-destra e sta cercando di convincere Matteo Salvini su questa opportunità.

Non credo si arriverà al traguardo – e sicuramente in questo caso senza Giorgia Meloni – perché un conto possono essere comunque le intenzioni dei vertici e un altro il sentimento degli iscritti e dei dirigenti locali dove il senso di appartenenza o le cicatrici di litigi antichi e recenti contano più di quanto si pensi.

Certo che teoricamente un partito unico potrebbe far pensare ad una facile vittoria elettorale su scala nazionale, ma l’esperienza italiana – da sempre – sottolinea come le fusioni, soprattutto quelle generate a freddo, non portano mai alla somma degli elettorati originali e che invece presto o tardi – ma di solito molto presto – crescono nuovi cespugli e si moltiplicano i dissensi interni che a loro volta generano nuove scissioni.

Da sempre è andata così. Già negli anni ’60 quando si tentò di chiudere la scissione di palazzo Barberini cercando di riunire le diverse anime socialiste (uno strappo che nel ’48 aveva portato l’Italia a rimanere definitivamente schierata in campo occidentale, con la divisione tra socialisti e socialdemocratici) ne uscì un disastro elettorale e presto si tornò alle separazioni originarie.

Lo stesso avvenne per la fusione tra ex democristiani ed ex comunisti che portarono alla Margherita e poi all’attuale Pd che vide perdere per strada voti, gruppi e gruppetti in una situazione complessa dove l’elettorato è largamente di sinistra con dirigenti cresciuti spesso in quella che fu la sinistra Dc che non ha conquistato voti ma piuttosto le posizioni di potere.

Anche oggi Pd e M5S reggono quando sono alleati, ma crollano se uniti in liste comuni e lo stesso concetto vale anche nel centro-destra.

Per realizzare una fusione, comunque, serve sempre un leader e capo indiscusso che con la propria autorevolezza personale possa essere in grado di tenere legate le diverse “anime” che sono alla base dei partiti, organismi molto meno forti e caratterizzanti di un tempo, ma che hanno ancora una loro importanza quando sono radicati sul territorio ed è il caso della Lega e di Fratelli d’Italia.

Chi conosce bene le diverse anime del centrodestra sa come queste siano spesso insofferenti a vicenda, un concetto che vale anche per le “basi” leghiste e berlusconiane, sottolineando la progressiva diaspora che ha colpito Forza Italia soprattutto a livello locale.

Proprio l’attrazione e la continua migrazione di eletti leghisti ed azzurri verso Fratelli d’Italia può però far comprendere le ragioni delle proposte di Berlusconi, ma non è imponendo una casacca comune che si superano i motivi di fondo di questi travasi che sono di solito basati più su situazioni personali che per motivazioni politiche.

C’è infatti un controsenso profondo da sanare: i programmi elettorali dei tre partiti (e loro satelliti) sono in gran parte sovrapponibili e questo darebbe effettivamente forza ad una fusione, ma ragioni “di sangue” comunque la renderanno indigeribile a una parte dei singoli elettorati.

La credibilità di Berlusconi negli apparati dei partiti-partner è ai minimi, quella della Meloni in crescendo, Salvini sta giocando (bene) il difficile ruolo di oppositore (o almeno di critico) all’interno del governo obbligandolo a qualche tensione con gli alleati a Palazzo Chigi pur di sottolineare la sua visibilità, quella che invece Forza Italia ha fatalmente man mano perso per strada.

Al concreto, infatti, chi sarebbe il leader del nuovo schieramento? Berlusconi potrebbe accontentarsi di una presidenza onoraria, ma il derby vero per il ruolo di leader tra Salvini e Giorgia Meloni è appena cominciato e si rafforza man mano che la credibilità della leader di FdI cresce nell’elettorato.

Difficile pensare che l’una accetti il premierato dell’altro e viceversa.

Contano infatti percorsi antichi e diversi che mi portano a pensare come per il bene della coalizione sia molto meglio un patto federativo piuttosto che una unificazione, anche sulla base dell’esperienza che portò al “Popolo delle Libertà”, abortito tentativo di una fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale.

La prima sopravvisse grazie al suo leader, l’altra morì con il tramonto di Fini creato anche dall’ “affare Montecarlo” adeguatamente pompato per mesi dalla stampa berlusconiana.

Forse – per il bene del centrodestra italiano – il processo dovrebbe essere affrontato al contrario: prima una definizione chiara di progetti, programmi e priorità e poi il “patto federativo” (che è già nei fatti) per le coalizioni a livello locale e regionale con candidature comuni nei collegi uninominali ma con liste diverse – pur collegate – in quota proporzionale alle prossime elezioni politiche.

Utile metodo per raccogliere le diverse sensibilità elettorali, “fare il pieno” di consensi e poi cercare (e non sarà facile) di governare insieme.


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