Grillo e Petrocelli, presidente della commissione Esteri del Senato, sostengono un rapporto sullo Xinjiang in difesa della Cina contro le “faziosità” dei governi e dei media occidentali. Peccato che il documento sia stato stilato da anonimi “ricercatori indipendenti”…
“Capire la complessità, costruire la pace. La situazione sociale e politica nella Xinjiang, più complessa del sensazionalismo della stampa generalista occidentale. Per non generare tensioni diplomatiche e pregiudicare cooperazione bilaterale/multilaterale”. Così, rilanciando l’ormai arcinota retorica aggressiva verso i giornali occidentali (meglio affidarsi alle testate di regime in Cina o in Russia?) e calpestando prese di posizioni ufficiali di governi e parlamenti, Vito Petrocelli, esponente del Movimento 5 stelle e presidente della commissione Esteri della Senato, ha annunciato su Twitter il suo sostegno a un rapporto dal titolo “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace”, pubblicato sia in italiano sia in inglese.
II documento che vuole ribaltare le accuse di diversi Paesi occidentali al governo cinese di persecuzione della minoranza uigura nello Xinjiang, regione nord-occidentale cinese fondamentale snodo della Via della Seta vista la sua posizione geografica, è stato promosso dal Centro Studi Eurasia-Mediterraneo insieme ad EURISPES-Laboratorio BRICS e all’Istituto Diplomatico Internazionale. E tra i firmatari dell’iniziativa, tra chi ha “condiviso gli obiettivi del gruppo di ricerca”, c’è anche Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 stelle, che la rilancia sul suo sito – una piattaforma già frequentata da Fabio Massimo Parenti, professore alla China Foreign Affairs University di Pechino, firma anche del giornale ufficiale del Partito comunista cinese, il Global Times, difensore di Huawei e accusatore dei “terroristi” uiguri nello Xinjiang proprio sulle pagine dell’Elevato.
“Finalmente un rapporto scientifico che presenta la questione dello Xinjiang in maniera sistematica ed equilibrata”, si legge sul blog di Grillo che nei mesi scorsi ha ospitato analisi che, come notato su Formiche.net, facevano il controcanto alle posizioni atlantiste del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, già capo politico del Movimento 5 stelle. L’obiettivo del documento – e già sul atto che un documento di ricerca si imponga, in partenza, obiettivi ci sarebbero diverse obiezioni da presentare –: “dare un contributo costruttivo al dibattito ed alle relazioni internazionali su un tema che impatta significativamente al livello nazionale, con ripercussioni anche per i nostri piccoli imprenditori, le famiglie e i giovani”. Poi un altro assist a Pechino: Lo “dimostra la decisione UE di congelare l’accordo sugli investimenti (CAI) che, qualora entrasse in vigore, proteggerebbe e tutelerebbe gli investimenti italiani e degli altri paesi europei in Cina”.
Sulle pagine di Formiche.net ci siamo già occupati a lungo dei punti deboli di quell’intesa che hanno alimentato i dubbi al Parlamento europeo: le formulazioni vaghe (“sforzi continuati e sostenuti, di propria iniziativa”) circa l’impegno della Cina a rendere illegale il lavoro forzato e i paletti posti da Pechino sugli investimenti europei che non dimostrano volontà di reciprocità.
Ma non è questo che stride nel caso in oggetto. Nell’introduzione del rapporto si legge di “campagne anticinesi, altamente politicizzate” sullo Xinjiang, “riportando il più delle volte informazioni totalmente infondate, non verificabili o false e generando, su queste basi, una guerra delle sanzioni e gravi danni alle relazioni internazionali”. “Mancano”, continua, “documenti alternativi, più oggettivi, realizzati da chi ha vissuto e studiato in Cina e nello Xinjiang, al fine di inquadrare e contestualizzare adeguatamente la regione e le sue reali dinamiche politiche, economiche e sociali”. In risposta a questo bisogno arriva “un rapporto differente”. Da che cosa? Ecco la risposta: un documento “capace di aiutare i decisori politici e l’opinione pubblica ad orientarsi in modo meno fazioso e pretestuoso rispetto alle accuse provenienti dai Paesi del Five Eyes, dell’UE e da alcune ONG e think-tank”.
Ma poco più sotto, ecco qualcosa di particolare: “Questo lavoro è stato realizzato da un gruppo di ricercatori indipendenti al fine di migliorare la qualità del dibattito sullo Xinjiang e promuovere iniziative di pace e dialogo interculturale e interreligioso”. E i nomi dei “ricercatori indipendenti”? Non ci sono: è un rapporto anonimo, elemento che dovrebbe indurre a qualche interrogativo il senatore Petrocelli, che da presidente di una commissione parlamentare tanto importante qualche mese fa aveva sostenuto l’idea di una moratoria contro le sanzioni internazionali a Paesi – regimi – come Corea del Nord, Cuba, Iran, Nicaragua, Russia e Venezuela. Al contrario nel documento di meno di quaranta pagine ci sono molti riferimenti a fonti ufficiali del governo cinese, come la testata Global Times, l’agenzia di stampa Xinhua e documenti dell’amministrazione.
Ecco le conclusioni, di segno opposto rispetto a ricerche firmate come quelle del professor Adrian Zenz e molte testimonianze di uiguri fuggiti dallo Xinjiang: “I campi di detenzione e rieducazione, infatti, sarebbero esclusivamente luoghi di reclusione e de-radicalizzazione per uomini e donne affiliati a gruppi terroristici che (…) da molti anni organizzano e compiono attentati, non solo nello Xinjiang ma anche nel resto della Cina e all’estero, contro obiettivi cinesi (rappresentanze diplomatiche, comitive turistiche o aziende) o anche di altro genere, come dimostra la presenza, segnalata in anni recenti, tra le file dell’ISIS di combattenti di etnia uigura nei teatri di conflitto siriano e iracheno”. Linea facilmente sovrapponibile a quella già sostenuta da Parenti, che suona un po’ come giustificare la rieducazione forzata di tutta la Sicilia alla luce del fatto che alcuni siciliani sono mafiosi.
Le ultime battute del rapporto sono la ciliegina sulla torta: il racconto di una famiglia che nega che i parenti siano rinchiusi in carcere e “invita la nonna a vedere con i suoi occhi come è diventato bello e vivibile lo Xinjiang che ha lasciato molto tempo fa”. Il tutto tratto da un’intervista al Global Times – strano modo, quello di citare i giornali di propaganda cinese, per fare le pulci ai media occidentali.
Colpiscono anche le tempistiche della pubblicazione. Negli ultimi mesi Canada, Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti hanno imposto sanzioni sulla Cina per le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. Sanzioni a cui Pechino ha reagito con contro-sanzioni sproporzionate che poi hanno il Parlamento europeo a congelare l’accordo Cai.
Soltanto la scorsa settimana la commissione Esteri della Camera, presieduta dal dem Piero Fassino, ha votato, dopo un braccio di ferro sull’utilizzo della parola genocidio, una risoluzione unanime di condanna per la persecuzione degli uiguri da parte della Cina chiedendo al governo di agire. Una mossa che ha scatenato la reazione cinese, con un duro comunicato dell’ambasciata a Roma che ha accusato la commissione di “ingerenza negli affari interni” tradendo, come notavamo su Formiche.net, un certo il nervosismo per un atto politico che può scrivere una nuova pagina dei rapporti bilaterali.
Critico verso quella risoluzione anche Michele Geraci, già sottosegretario al Mise durante il primo governo Conte, che in passato aveva “egregiamente spiegato” le ragioni della firma italiana sul memorandum d’intesa con la Cina sulla Via della Seta (il virgolettato è trattato da un articolo pubblicato sul sito del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo). Geraci di recente è stato in “gita” – parole sue – proprio nello Xinjiang: “La mia sensazione, ripeto sensazione, è che parlare di genocidio nel caso dello Xinjiang è un offesa a ebrei et al che lo hanno subito veramente”, ha scritto su Twitter criticando l’utilizzo della parola poi rimossa dalla risoluzione. Poi, sempre su Twitter, ha risposto all’onorevole Fassino spiegando: “Non è il testo che non condivido, ma il non desiderio di alcuni a non volere confrontarsi, capire, come se ci fosse paura di scoprire altro”.
Parole che ricordano quelle pronunciate qualche giorno fa dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi: “I nostri amici europei sanno cos’è il genocidio”. Una dichiarazione che assume ancor più peso perché detta durante un webinar organizzato dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, in Germania, e che sembra essere soltanto un pezzo dell’offensiva diplomatica cinese sullo Xinjiang.