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Si può evitare lo scontro tra Cina e Stati Uniti? Risponde Kaiser Kuo

Di Valeria Garbui

Quanto è calda la “Guerra Fredda” fra Cina e Stati Uniti? Lo scontro fra due modelli di governance, autoritario e democratico, avrà un solo vincitore? Risponde Kaiser Kuo, autore di SupChina e co-fondatore di Sinica Podcast, nella seconda lezione della TOChina Summer School

Negli ultimi anni, le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina hanno subito un rapido e brusco declino, le cui dimensioni più evidenti sono quella economica e diplomatica. Tuttavia, lo scrittore statunitense di origine cinese, Kaiser Kuo (SupChina e co-fondatore di Sinica Podcast), suggerisce che anche i media abbiano un ruolo fondamentale nella questione, poiché influiscono sull’opinione pubblica di entrambi i paesi. Forte della sua identità biculturale, durante la lecture conclusiva della prima settimana della TOChina Summer School, Kuo offre interessanti spunti di riflessione sull’argomento.

Kuo vede nelle relazioni mediatica tra Cina e Stati Uniti due principali problemi. Per prima cosa, lo scrittore ammette che non è semplice riportare la Cina: la diffidenza nei confronti dei giornalisti stranieri e il trattamento, anche violento, che viene riservato loro si traduce spesso in una copertura negativa del paese asiatico nei media stranieri, attivando così un circolo vizioso.

Dall’altra parte, spesso l’Occidente ha la presunzione di conoscere meglio la situazione reale rispetto ai cinesi stessi, che sarebbero limitati da censura, propaganda e repressione. Eppure, riflette Kuo, “la preoccupazione occidentale per la repressione dei diritti umani e la libertà di parola in Cina sembra essere piuttosto recente”. Infatti, aggiunge Kuo, “da tempo ormai la Cina mette in atto politiche, per così dire, discutibili (basta pensare al Tibet), ma ciò non ha mai suscitato particolare scalpore”.

Kuo suggerisce che questo si rifletta anche nella diversa visione che le due potenze hanno del sistema internazionale. Da una parte, Washington fa fede ad un assolutismo etico occidentale, che vede nel modello capitalistico-liberale l’unica via per il progresso. Dall’altra, Beijing propone il pluralismo, secondo cui esistono diverse vie per il progresso e ogni Stato dovrebbe seguire la più consona  alle proprie caratteristiche.

La Cina, dunque, non sembra volersi sostituirsi agli Stati Uniti come potenza egemonica globale, piuttosto le sue azioni in politica estera mirerebbero ad instaurare un sistema globale multipolare, il che necessita di un ridimensionamento del potere generale americano, a favore degli altri poli emergenti.

Kuo sottolinea che la Cina, pur essendo uno Stato ad alto potenziale trasformativo, rimane legata alla propria esperienza storica: molti degli intellettuali cinesi con cui lo scrittore interagisce difendono in modo esclusivamente passivo il totalitarismo cinese. Questo viene visto come uno stadio dello sviluppo cinese, che, eventualmente, porterà ad una democrazia liberale”. Attualmente, “uno Stato autoritario rimane l’unica opzione per un paese come la Cina, che, pur avendo raggiunto standard di sviluppo e ricchezza molto elevati, continua a dover affrontare i problemi di uno Stato sovrappopolato, prevalentemente rurale e con alti livelli di povertà”.

Perché allora gli Stati Uniti temono così tanto la crescita e l’influenza cinese? Anche in questo caso, Kuo identifica due fattori. In primo luogo, per gli Stati Uniti la Cina si configura come un rivale alla pari su più livelli: è un avversario sia economico, sia strategico, sia politico. La Cina non rispecchia (più) le aspettative che gli Stati Uniti hanno su un Paese comunista e in via di sviluppo.

In secondo luogo, l’improvvisa e inesorabile crescita della Repubblica popolare cinese ha dimostrato, secondo lo scrittore, “la fallacia di alcuni dei pilastri dell’egemonia americana”. Innanzitutto, il successo del “capitalismo in chiave socialista” ha evidenziato come un sistema di libero mercato non è imprescindibilmente legato ad un sistema politico liberale.

Allo stesso modo, tecnologia e innovazione prosperano anche in regimi, come quello cinese, in cui la ricerca scientifica è forzata dall’establishment politico. D’altro canto, le nuove tecnologie, tra le quale i social network, che si credevano essere i mezzi ideali per rovesciare i regimi autoritari, sono anche strumenti di controllo, repressione e propaganda, anche in occidente (si pensi al caso Snowden). Infine, la pandemia di Covid-19 ha dimostrato il fallimento del sistema sanitario americano, prima ritenuto il più efficace ad avanzato al mondo.

Kuo sostiene che spesso queste “aspettative infrante” suscitino “reazioni esagerate” da parte della società, e alcuni segmenti della classe politica, americana, tra cui sminuimento dello sviluppo cinese (“Non sono pronti per una democrazia reale, né lo saranno mai”), manifestazioni xenofobe (“Gli asiatici diffondo virus”) e ostinazione sulla violazione dei diritti umani. Di contro, la Cina risponde spesso sugli stessi toni, sia dai suoi account sui social media, che nelle dichiarazioni ufficiali.

Pur considerando questo “benaltrismo” una forma di comunicazione illegittima e ridicola, Kuo tende a giustificare il comportamento cinese a riguardo. Lo scrittore spiega infatti come la Cina sia “frustrata dall’ipocrisia occidentale nei suoi confronti”. In fondo, sostengono i cinesi, “se le accuse di violazione dei diritti umani e della libertà d’espressione nello Xinjiang e a Hong Kong vengono da un paese che a sua volta mostra di avere ben poco riguardo nei confronti delle proprie minoranze etniche o religiose, le ostilità nei confronti della Cina sembrano ingiustificate e scorrette”. Kuo ricorda che, seppure la Cina appaia potente e sicura di sé, tendiamo a dimenticare che la sua potenza non è soltanto molto recente, ma è stata anche estremamente improvvisa.

Insieme ad un ampliamento dei curricula di studi cinesi a comprendere tutte le sfaccettature della società cinese, Kuo auspica che una maggiore e più approfondita copertura mediatica possa portare ad un abbandono dei reciproci preconcetti. Per la società statunitense, questo significherebbe anche poter criticare quelle politiche cinesi che sono in aperto contrasto con gli standard della comunità internazionale, soprattutto per quanto riguarda le azioni contro gli uiguri dello Xinjiang e le repressioni ad Hong Kong, senza fomentare il crescente “antiasiatismo” della destra xenofoba occidentale. Purtroppo, questo sembra ancora molto lontano, in quanto entrambe le parti impediscono, o perlomeno rendono più difficoltoso, l’accesso a giornalisti e accademici della controparte.

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