Se la Nato del 2030 dovrà essere più politica, globale e tecnologica, conterà soprattutto il quadro strategico. La Russia continuerà a essere considerata la principale minaccia militare, ma la sfida più delicata, per il nuovo Concetto strategico, sarà delineare una strategia sulla Cina. Da Airpress di giugno, il punto di Marta Dassù, senior advisor European affairs dell’Aspen Institute e direttore di Aspenia
Con la partecipazione di Joe Biden al vertice Nato del 14 giugno si chiude una fase di incertezza nelle relazioni transatlantiche. Per il presidente democratico americano, l’alleanza politico-militare fondata nel 1949 resta per gli Stati Uniti un vantaggio strategico, piuttosto che l’onere un po’ fastidioso denunciato da Donald Trump. La Nato, per essere realmente utile e venire rafforzata, non può fondarsi tuttavia sulla pura eredità del passato; deve al contrario evolvere, rispondendo alle sfide di questo secolo. Si apre così, come già accaduto in altre fasi di una lunga storia, un processo di adattamento: l’Alleanza Atlantica adotterà nel 2022 un nuovo Concetto strategico, visto che quello in vigore, del 2010, mostra i segni del tempo.
Questa ricerca di equilibrio tra ciò che va salvato della Nato (il suo ruolo essenziale come strumento di difesa comune delle due sponde dell’Atlantico) e ciò che va adattato in termini operativi, è racchiuso nello slogan Nato2030. L’obiettivo è di proiettare l’Alleanza Atlantica nel prossimo decennio, tenendo conto che l’ascesa della Cina cambia gli equilibri globali, che l’assertività della Russia si estende ormai dal fianco est al Mediterraneo allargato, che la sfida tecnologica è cruciale e che esistono rischi e minacce transnazionali (dal terrorismo alle ripercussioni di sicurezza dei cambiamenti climatici) che non possono essere sottovalutati.
È un’agenda vasta ma necessaria; il punto è se un’America impegnata anzitutto nel proprio consolidamento domestico e se un insieme di alleati europei ancora divisi sul significato esatto della cosiddetta “autonomia strategica” dell’Ue riusciranno a rispondervi in modo coeso e convincente. Questo significa che la sfida primaria da superare sarà interna, inclusi i delicati dilemmi che pone un Paese membro come la Turchia. Dilemmi, non dimentichiamo, che avevano spinto Emmanuel Macron ad affermare nel 2019 che la Nato versava in uno stato di “morte cerebrale”.
La Nato si è ormai lasciata alle spalle la crisi di credibilità di allora, ma è indubbio che il suo rilancio come alleanza politica e non solo militare debba essere consolidato. Come e in che direzioni? Jens Stoltenberg, segretario generale, ha riassunto il lavoro di riflessione su Nato2030, in parte affidato a un gruppo internazionale di esperti guidato da Thomas de Mazière e Wess Mitchell, in una serie di proposte operative presentate al Consiglio atlantico. In queste rientra l’idea di allargare l’area di attività della Nato alla “tenuta” interna delle società democratiche, la cosiddetta “resilienza”.
Ciò significa affidare alla Nato compiti di protezione delle infrastrutture critiche (in caso di attacchi cyber ad esempio) o, come già accaduto di fronte a Covid-19, compiti di supporto logistico. Il problema sarà di trovare il giusto equilibrio, anche finanziario, tra le missioni militari tradizionali (difesa convenzionale, dissuasione nucleare, gestione delle crisi) e nuovi interventi di tipo civile. Se la Nato del 2030 dovrà essere più politica, globale e tecnologica, conterà soprattutto il quadro strategico. La Russia continuerà a essere considerata la principale minaccia militare, ma la sfida più delicata, per il nuovo Concetto strategico, sarà delineare una strategia sulla Cina.
La Nato non può certo restare ai margini di un problema centrale della sicurezza globale, ma non si impegnerà militarmente in Asia orientale. Piuttosto verranno tenute sotto controllo le implicazioni “interne” dell’ascesa cinese per la sicurezza occidentale: vulnerabilità delle catene del valore in settori strategici, autonomia della base tecnologica e industriale della difesa. Parallelamente la Nato rafforzerà i rapporti di partnership con Australia, Giappone e Corea del Sud.
Qui emerge potenzialmente il contorno di uno scambio transatlantico innovativo, in base al quale la Nato (con il sostegno americano) si occuperà principalmente di Europa e del suo vicinato ma gli europei dovranno appoggiare Washington nel contenimento della Cina in termini diplomatici ed economici. Anche per questa ragione un rafforzamento del dialogo fra Nato e Ue è iscritto nella logica del futuro, per quanto una parte degli alleati atlantici non membri dell’Unione, tra i quali la Gran Bretagna post-Brexit, frappongano ostacoli.
La presidenza democratica americana, dopo anni in cui Donald Trump ha giocato la carta della imprevedibilità, ha scelto di rassicurare gli europei sulla piena adesione americana alla Nato, ritenuta da Biden negli interessi prioritari degli Stati Uniti stessi. Va in questo senso anche la conferma della presenza delle truppe americane in Germania. Al tempo stesso non siamo affatto in una fase di semplice restaurazione, quasi nostalgica, dei rapporti euro-americani del passato.
Da una parte, infatti, Washington è decisa a chiudere senza troppi complimenti alcuni capitoli della vecchia Nato. Lo dimostra la scelta tutta americana di ritiro dall’Afghanistan, con le sue conseguenze sull’insieme della presenza militare occidentale. Dall’altra, il peso prioritario della competizione con la Cina coinvolge anche gli alleati europei, spingendo verso il tipo di “deal” cui abbiamo appena accennato. E che potrà essere praticabile solo se i Paesi europei assumeranno a loro volta responsabilità più dirette per la sicurezza euro-atlantica.