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Clima, luci e ombre del G20 Napoli. L’analisi di Francescon

Di Silvia Francescon

Obiettivo (minimo) raggiunto: la ministeriale G20 di Napoli su energia e clima è un assist importante per l’appuntamento a Roma in autunno e la Cop26. Ma ancora una volta è mancato coraggio: facciamo la transizione ecologica, senza ecologia. Il commento di Silvia Francescon, senior policy advisor e componente del comitato esperti G20 gruppo energia e clima presso il Mite

Se la Ministeriale G20 su energia e clima doveva essere un ponte verso il vertice dei leader di ottobre prima, e la COP 26 poi, l’obiettivo è stato raggiunto. Un punto di partenza su cui costruire, certamente non una pietra miliare.

La presidenza italiana, già dal precedente governo, aveva scommesso sul trattare congiuntamente il tema dell’energia e del clima e questa è sicuramente una novità, che oggi trova riflesso anche nella ristrutturazione del Ministero dell’Ambiente, diventato della transizione ecologica.

È mancato, però, il coraggio di includere nei negoziati climatici il tema della protezione della biodiversità (salvo i riferimenti alle Nature based solutions nelle città). Insomma, è come se facessimo la transizione ecologica senza ecologia. Poco apporta, al riguardo, il comunicato della Ministeriale ambiente tenutasi il giorno prima, che ha prodotto tutta una serie di iniziative che probabilmente poco riusciranno ad incidere su un’ambiziosa azione climatica e ambientale.

Il compromesso raggiunto su 58 punti, sacrificando i due più importanti, vede ancora India, Cina, Russia e Brasile opporsi alla scienza dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) che traccia la via per i governi: rimanere sotto la soglia dell’1,5°C al 2030 rispetto i livelli pre-industriali; nonché a chiudere tutte le centrali a carbone entro il 2025.

La Presidenza italiana ha adottato una tecnica negoziale parzialmente già attuata proprio dalla stessa Presidenza italiana del G7 nel 2017, quando fu firmato un comunicato nell’ambito della Ministeriale energia a 6, che escludeva gli Stati Uniti di Trump non disposti a menzionare l’Accordo di Parigi.

Il fatto che nessuna delegazione, a Napoli, abbia messo in discussione Parigi sembra tuttavia il minimo denominatore, tenendo in considerazione il peso di un’amministrazione americana determinata raggiungere la neutralità entro il 2050 a livello multilaterale. E se la Cina si oppone (puntando al 2060), sono anche gli Stati Uniti ad opporsi ad un riferimento temporale ambiguo, per non lasciare spazio e potere alla Cina.

Il dato più significativo che esce da Napoli è l’alleanza transatlantica. Ora è importante che questa si dispieghi non solo nei contesti negoziali multilaterali, ma che si traduca in impegni concreti. Non si tratta solo di guidare la transizione globale attraverso investimenti, o fissare una data per porre fine ai sussidi ai combustibili fossili (incluse le garanzie pubbliche di credito all’esportazione, e su questo bisognerà fare grande attenzione a quanto sta accadendo nei fondali artici), ma anche allearsi per porre fine ai finanziamenti fossili della EBRD.

Inoltre, il risultato di Napoli non dovrebbe alimentare la narrazione secondo cui sarebbe tutto inutile in quanto i grandi emettitori non si impegnano abbastanza. È vero che la partecipazione di Cina e India è cruciale per il successo alla sfida climatica ma il punto non è abbandonare l’esempio virtuoso (la credibilità internazionale di costruisce anche così), bensì non imporre l’approccio top-down, carattere distintivo delle politiche climatiche Ue, ai partner.

Questa fu la chiave del fallimento a Copenaghen nel 2009, come il consentire la determinazione nazionale degli impegni verso una traiettoria comune permise il successo di Parigi.

Una forma evoluta, si potrebbe dire, del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che dovrebbe, oggi, prevedere una distinzione fra Cina e altri paesi (e fondamentalmente fra paesi che possono agire e quelli che non ne sono in grado, se non limitatamente) e che si accompagna all’impegno di 100 miliardi all’anno per i paesi più poveri (e spesso più vulnerabili ai cambiamenti climatici) per misure di adattamento, che tuttavia non trova, a tutt’oggi, ancora un piano concreto di attuazione.

I Leader a fine ottobre a Roma potrebbero fare di più, perché sul tavolo avranno molti più elementi negoziali e di conseguenza margini di manovra più ampi attorno i quali fare sintesi. Si parlerà, ad esempio, anche di commercio e la carta della carbon tax – chiamata carbon border adjustment mechanism dall’Ue – potrebbe essere giocata, sempre che Usa e Ue trovino un’intesa, per ottenere di più dalla Cina.


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