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Emirati, urge una soluzione alla crisi. Parla Perego (FI)

Conversazione con Matteo Perego di Cremnago, deputato per Forza Italia, membro della Commissione Difesa, sulla delibera missioni in discussione in Parlamento. Lo sfratto da Al Minhad? “Mi auguro che il governo stia ponendo rimedio”. Il supporto alla Guardia costiera in Libia? “L’alternativa è lasciarla in mano ai turchi”

Lo sfratto dalla base di Al Minhad avrà ripercussioni importanti a livello operativo per le nostre Forze armate. Il caso, per quanto bruciante, può però rilanciare “un dibattito serio” su export, impegni all’estero e politica di difesa, alla ricerca di strutture e formule che tutelino al meglio “l’interesse nazionale”. Ne è convinto l’onorevole Matteo Perego di Cremnago, deputato di Forza Italia e membro della Commissione Difesa della Camera, che Formiche.net ha raggiunto per commentare la delibera relativa alle missioni militari per l’anno in corso, attualmente in fase di discussione in Parlamento. In tutto si tratta di 40 impegni all’estero, due in più rispetto al 2020, per una forza complessiva che potrà raggiungere al massimo le 9.449 unità (oltre 800 in più rispetto allo scorso anno).

Onorevole, quale è il suo giudizio complessivo sulla delibera missioni?

Prima di tutto distinguerei due aspetti. C’è il campo prettamente legato alle specifiche missioni, in continuità con la volontà di proteggere i nostri interessi nel cosiddetto “Mediterraneo allargato”. Io preferisco personalmente un’altra immagine, che rende meglio quali sono i nostri interessi primari: quella del triangolo, con ai vertici la Libia a nord, il Golfo di Guinea a ovest, il Corno d’Africa a est e il Sahel al centro. Il secondo aspetto riguarda gli sforzi all’interno di coalizioni internazionali e nella Nato, come la missione in Iraq e la partecipazione alla missione Emasoh nello Stretto di Hormuz.

Proprio Emasoh rappresenta la novità maggiore…

In realtà lo scorso anno aveva fatto scalpore l’assenza della missione nella delibera. Già a gennaio 2020 l’Italia aveva infatti sottoscritto un accordo politico per aderire. Poi c’è stato un cortocircuito interno nel M5S per cui non si è dato il via all’impegno militare. Ora la situazione si è evidentemente sbloccata.

Il dibattito sulle missioni si è intrecciato con quello relativo allo sfratto dalla base di Al Minhad. C’è margine per recuperare il rapporto con gli Emirati?

Spero proprio di sì. Un ragionamento sul caso è senza dubbio opportuno. Lo sfratto dalla base è stata la conseguenza di aver incrinato i rapporti con gli Emirati, una situazione a cui mi auguro il governo stia ponendo rimedio. Le ricadute di carattere operativo sono piuttosto evidenti, come nel caso del ritiro dall’Afghanistan, per cui la base di Al Minhad era importantissima, costringendo i nostri militari ad appoggiarsi ad altri Paesi, come il Kuwait. Immagino che si debba ora cercare un nuovo hub di riferimento ricorrendo ad altre basi.

Come per lo scorso anno, il punto più discusso della delibera in Parlamento riguarda la missione in favore della Guardia costiera libica. Lei come la legge?

Non sottovaluto le critiche mosse dalla sinistra a tale impegno. Obiettivamente, nessuno può sostenere che la Guardia costiera libica abbia sempre un atteggiamento rispettoso del diritto internazionale e umanitario. Tuttavia, mi chiedo quale possa essere l’alternativa rispetto alla nostra missione, se davvero sia meglio lasciare la Guardia costiera libica in mano alla Turchia. Secondo me, proprio per le note problematicità occorrerebbe rafforzare il nostro ruolo, indirizzandolo alla formazione con caveat più rilevanti e istruendo alla corretta gestione delle coste. Non possiamo lavarci le mane e dire “fate vobis”. Chi meglio di noi può dare un contributo concreto e avere interesse nella salvaguardia della vita dei migranti?

Arriviamo a uno dei vertici del triangolo africano: il Corno d’Africa. Gli esperti notano che la Cina ha aumentato la sua presenza nell’area e la penetrazione nel continente. Che rischi ci sono?

Nel Corno d’Africa il nostro Paese ha perso il suo secolare protagonismo a favore di altri attori, turchi, emirati e cinesi. La base della Cina a Gibuti occupa pressoché l’intero porto, e da lì la presenza di Pechino in Africa non può che consolidarsi. Credo che dobbiamo fare la nostra parte al meglio, in un’area del mondo che è tra le porte principali dell’Oriente verso il resto del mondo. Un’attenzione particolare è d’obbligo.

Si confermano gli impegni in Sahel e in Iraq, con focus sul contrasto alla minaccia jihadista. La guerra al terrorismo non è ancora finita?

Le minacce dell’Isis al ministro Luigi Di Maio ci hanno ricordato quanto la minaccia sia tutt’ora reale. La diffusione del jihadismo presenta varie matrici e articolazioni, non riconducibili solo a Daesh a al Qaeda. Stiamo assistendo a una diffusione esponenziale di attacchi violenti verso cristiani, civili innocenti, un fenomeno che modifica gli equilibri geopolitici e che non può non innalzare il nostro livello d’attenzione.

Come?

In Commissione Affari costituzionali abbiamo da poco terminato un ciclo di audizioni su una proposta di legge, a mia prima firma, abbinata a una dell’onorevole Fiano, che ha l’obiettivo di istituire una commissione d’inchiesta sul terrorismo, prima di tutto quello di matrice jihadista. Le minacce a Di Maio sono un ulteriore campanello d’allarme. Non possiamo pensare che, sconfitto il Califfato, l’Isis sia sconfitto. La minaccia evolve e acquisisce forme differenti, legandosi tra l’altro a traffici criminali e ai flussi migratori, canali in cui le organizzazioni terroristiche riescono agevolmente a infiltrarsi.

L’impressione è che nel nostro Paese il grande pubblico abbia poco chiare le ragioni dei tanti impegni all’estero dei nostri militari. Come spiegarlo?

Le missioni militari sono un pilastro da legare a un concetto che nel nostro Paese è effettivamente ancora poco chiaro: l’interesse nazionale. Ritengo sia necessario definire prima di tutto il nostro interesse nazionale, chiarendo il ruolo che l’Italia vuole avere nel mondo per declinarlo poi nell’architettura dello Stato. Se ancora oggi il dialogo tra Maeci e Difesa è orizzontale, con la presidenza del Consiglio che interviene non in modo sistemico (il caso degli Emirati è emblematico), qualcosa su cui lavorare evidentemente c’è.

Da dove iniziare?

Penso che, partendo dalle missioni militari quale asset di politica estera, si potrebbe cogliere l’occasione per rivedere una serie di strutture organizzative, dalla legge 185 del 1990 (che regola l’export della difesa, ndr) al g2g, dalle ambizioni dell’industria nazionale della difesa fino al golden power. Occorre fare in modo che tutti gli strumenti a disposizione siano ottimizzati e funzionino coordinati, in una dimensione diversa da quella attuale. Io stesso avevo proposto di istituire il dipartimento della Pubblica sicurezza sul modello del National security advisor (Nsa) americano. Dove non c’è unità d’intenti, è bene che il presidente del Consiglio evochi a sé l’indirizzo strategico e geopolitico del Paese.

Sul caso emiratino il ministro Di Maio ha fatto però notare che la decisione di bloccare l’export risponde a una risoluzione parlamentare…

Sì, una risoluzione promossa da un membro del suo stesso partito. Ciò alimenta in primis il dubbio che manchi una certa capacità di dialogo tra il leader della Farnesina e i suoi stessi colleghi. A parte questo, l’aspetto centrale è un altro: o il Parlamento è sempre sovrano, oppure no. Se il blocco all’export risponde alla risoluzione parlamentare, per quale ragione l’Uama ha tolto, il 30 giugno, l’end-user certificate rafforzato alle aziende che esportano negli Emirati senza sentire il Parlamento? Cosa è cambiato? L’Uama è un ente tecnico, ma la decisione è stata evidentemente politica. Credo che in questo caso, a due giorni dalla scadenza dell’ultimatum per lasciare la base di Al Minhad, la toppa sia stata peggiore del buco.

Intanto si è concluso il ritiro dall’Afghanistan. Considerando le notizie che giungono dal Paese, è stata una mossa giusta?

Sono stato in Afghanistan ad aprile e ci ho lasciato il cuore. In vent’anni di impegno militare, l’Italia è stata capace di scrivere una pagina importante della storia contemporanea del Paese. Il dramma è che, per quanto la scelta italiana non potesse che essere legata a quella americana e della Nato, purtroppo si stanno concretizzando gli scenari peggiori. È notizia recentissima che la guerra civile ha raggiunto Herat. È dunque evidente che, nonostante i nostri sforzi, il Paese non è in grado di reggersi sulle sue gambe.

Cosa ci insegna?

Ci insegna che, di fronte alla scelta americana, legata alla comprensibile esigenza di focus sull’Indo-Pacifico, l’Occidente e l’Europa non si sono fatte trovare pronte. L’Italia non poteva farlo certo da sola. Ora è auspicabile che l’Europa acquisisca nell’idea di Difesa comune la capacità di determinare il destino di un Paese. Da anni gli Stati Uniti hanno riorientato le loro priorità. L’Europa deve iniziare a ragionare in ottica collettiva. Senza dubbio è un errore aver lasciato a talebani, Cina e Turchia le sorti di stabilizzazione dell’Afghanistan, senza essere stati in grado di dar seguito a progetti ambiziosi come l’aeroporto di Herat.

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