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Ernesto Nathan, le grandi opere di ieri e oggi nel racconto di Fabio Martini

Di Fabio Martini

Dal mausoleo dell’imperatore Augusto che divenne Auditorium allo Stadio nazionale della Capitale, pubblichiamo un estratto del volume di Fabio Martini, “Nathan e l’invenzione di Roma. Il sindaco che cambiò la Città eterna”, edito da Marsilio, che racconta come con grandi architetti e un sindaco illuminato si riuscì a dare un volto nuovo a Roma. I paralleli con il presente

UNA STORIA ROMANZESCA, TUTTA ROMANA

Il 16 febbraio 1908 viene solennemente inaugurato il complesso comunale dell’Augusteo, un auditorium per la musica cameristica e sinfonica che nasce in uno dei luoghi più solenni e tormentati della Città eterna: il mausoleo dell’imperatore Augusto.

Il Comune aveva in precedenza riscattato dal degrado quell’antico monumento abbandonato, ma sarà l’amministrazione Nathan a trasformarlo in un luogo di cultura musicale che diventerà tra i più rinomati d’Europa. Un recupero e un rilancio in un’area archeologica dove la storia si era esercitata con una bizzarria e con spoliazioni senza pari.

Naturalmente in una città dalla vita così lunga sono tanti i siti nei quali si sono sovrapposte le impronte e i lasciti di epoche diverse, a partire dalla Roma repubblicana-imperiale sino a quella dei papi. In alcuni casi l’innesto di una chiesa cristiana su un tempio pagano ha dato vita a una convivenza con demarcazioni nettissime e perciò spettacolari, come nel caso della sovrapposizione di San Lorenzo in Miranda sul preesistente tempio di Antonio e Faustina all’interno dei Fori. Ma nessun sito, come il mausoleo del primo imperatore, può dare testimonianza di una storia altrettanto romanzesca, nel corso della quale il capriccio del caso, la fantasia creatrice e le depredazioni spontanee da parte dei romani si sono espressi con varianti egualmente originali.

Subito dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), che aveva concluso una sanguinosa guerra civile, Ottaviano volle eternare il suo nome. Per realizzare il suo mausoleo (termine che derivava dal satrapo greco Mausolo, che si era fatto costruire un grande sepolcro ad Alicarnasso, diventato una delle sette meraviglie del mondo antico) Ottaviano, nel frattempo diventato Augusto, scelse una zona periferica, priva di abitazioni e vicina al Tevere: Campo Marzio. Era un edificio circolare del diametro di circa 87 metri e raggiungeva l’altezza di 44 metri. Sulla cima si trovava addirittura un piccolo bosco, e la statua di Augusto. Nel racconto del geografo Strabone, un bellissimo monumento: “Un grande tumulo di terra, sopra un’alta base rotonda di marmo bianco, tutto ombreggiato da alberi sempreverdi, fino alla cima, sulla quale era la statua di Cesare Augusto, in bronzo dorato”.

Un progressivo degrado nel corso del medioevo viene interrotto attorno al 1100, quando i Colonna ne fanno una fortezza che lascia in eredità ai posteri la denominazione di «Agosta». Ma dura poco: la fortezza viene smontata da papa Gregorio IX e tutta l’area torna a essere oggetto di spoliazioni come cava di travertino. Resta tuttavia un luogo simbolico e nel 1354 l’edificio ospita la macabra condanna al rogo del corpo ormai senza vita di Cola di Rienzo. Nel periodo rinascimentale l’area di Campo Marzio torna a popolarsi e per l’antico mausoleo, una volta ancora, si inaugura una nuova vita. Dopo le cure amorevoli della famiglia fiorentina dei Soderini, che fa letteralmente rifiorire la parte superiore, realizzandovi un giardino con statue e aiuole, aprendo per la prima volta la strada all’utilizzo come area spettacoli.

Una vocazione che si conferma nella metà del Settecento: il mausoleo di Augusto viene acquistato da un nobile portoghese, Benedetto Correa de Sylva, che lo dà in affitto a un impresario spagnolo, Bernardo Matas, che a sua volta crea un anfiteatro in legno. Diventa arena di corride vaccine, per bufale e per tori, per giostre e burattini, ma anche base per assistere ai «fochetti», e cioè spettacoli pirotecnici di grande successo popolare. Con il passare degli anni, la struttura cambia impercettibilmente nome e diventa «Anfiteatro Corea»: la pigra fonetica romana aveva perso per strada una «r». Ma il destino continua ad accanirsi. Viene affidato all’architetto Giuseppe Valadier l’incarico di un nuovo progetto di teatro all’aperto: la sua proposta di realizzare una grande gabbia in ferro fuso sulla quale stendere dei velari viene realizzata ma con strutture in legno, più fragili. Una leggerezza: il 25 agosto 1825 la struttura cade, uccidendo un operaio. L’anfiteatro passa sotto le cure della Camera apostolica, che riconverte lo spazio: ospita spettacoli di prosa e diventa anche la base di un volo aerostatico.

In quella circostanza Pio IX, non avendo fiducia nel veicolo, volle che nella cabina della mongolfiera, al posto dell’aeronauta, trovasse posto una pecora. Ma i passaggi di mano non finiscono neanche allora: dopo la breccia di Porta Pia il mausoleo viene incamerato nel demanio. Ma l’interminabile staffetta non è ancora esaurita: lo spazio viene acquistato da un facoltosissimo banchiere, il conte Giuseppe Telfener, amministratore dei beni della famiglia reale. Lo intitola al re («Anfiteatro Umberto») e realizza una copertura in ferro zincato e ondulato. La struttura non decolla, come dimostra anche il carattere eclettico degli eventi che si susseguono: nel 1875 ospita un grande banchetto per il ritorno a Roma del generale Garibaldi. Interviene pure la Pubblica sicurezza, che dichiara il mausoleo inagibile: le uscite sono insufficienti.

E così nel 1888 arriva l’ennesima doccia fredda: si chiude. L’antico mausoleo si trasforma in una cava di marmo, utilizzato per la costruzione dell’Altare della patria. Nel 1907 il Comune acquisisce dallo Stato il monumento con l’idea di farne un auditorium per la musica. L’amministrazione Nathan, che arriva subito dopo, colloca la nuova struttura nell’ambito di una linea di intervento che non può definirsi ancora una politica culturale comunale ma ne è la premessa: l’idea che gli eventi vadano fruiti da un pubblico più largo possibile. Una concezione che ha la sua punta di diamante proprio nella valorizzazione della nuova sala concerti. Certo, nei primi anni del Novecento non esiste ancora l’idea di un indirizzo culturale promosso in modo autonomo dai Comuni e bisognerà attendere gli anni settanta perché emerga un protagonismo in questo senso, in particolare da parte degli assessori alla Cultura: un fenomeno che parte proprio a Roma e da qui si irradierà in molti paesi.

UN AUDITORIUM ACCOGLIENTE

La ristrutturazione viene realizzata in tempi brevi – seguendo il progetto di inserire la nuova sala sopra il mausoleo, come un ampio cappello che sovrasti la base –, ma in attesa che i lavori si completino, la nuova amministrazione capitolina si muove. Il 5 gennaio 1908 stipula una convenzione con la Regia accademia di Santa Cecilia, guidata dal conte Enrico San Martino Valperga, per trasferire nel nuovo auditorium i concerti sinfonici che sino a quel momento si sono svolti nella Sala accademica di via Vittoria. E così finalmente, dopo appena tre mesi e mezzo di ristrutturazione, il 16 febbraio, l’inaugurazione: si chiama ancora «Anfiteatro Corea» (così vuole il Comune) e il concerto di apertura è diretto dal maestro Giuseppe Martucci. Un anno dopo il nuovo battesimo: da quel momento la struttura viene definita «Augusteo».

È l’avvio di una stagione felicissima. Certo, la gestione dell’auditorium da parte del Comune è un’eredità dalla precedente amministrazione, ma la nuova Giunta rilancia scommettendo sull’idea di allargare il pubblico potenziale, di democratizzare la platea della musica classica. Si investe sulla capienza (tremilacinquecento posti in una città di cinquecentomila abitanti non sono pochi), sui costi accessibili dei biglietti, sui concerti di beneficenza. Grazie a un’efficace ristrutturazione – la sala viene foderata di legno – l’auditorium romano diventa celebre per l’eccellente acustica, per il suggestivo contesto e per la qualità dei suoi interpreti. Si susseguono esecuzioni e direttori formidabili: Arturo Toscanini, Gustav Mahler, Jean Sibelius, Victor de Sabata, Wilhelm Furtwängler, Gino Marinuzzi, Pietro Mascagni.

La politica dell’amministrazione Nathan è quella di puntare sui «concerti popolari» a prezzi contenuti. Scriverà qualche anno dopo il sindaco: “Per quattro soldi l’operaio poteva sentire i migliori direttori d’orchestra, i migliori strumentisti del mondo”. Vennero organizzati anche concerti di beneficenza, con lo scopo di raccogliere fondi da destinare alle vittime di eventi dolorosi. In quello stesso periodo lo stanziamento comunale al Teatro Costanzi viene subordinato all’esecuzione di giovani compositori italiani. Le stagioni concertistiche all’Augusteo si susseguono con questa doppia connotazione – alto livello qualitativo e accessibilità – ma a partire dal 1926 un’immateriale spada di Damocle torna a insidiare quella sala diventata così prestigiosa. Il 31 dicembre del 1925, nella sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio, Benito Mussolini insediando il nuovo governatore di Roma Filippo Cremonesi, pronuncia un discorso impegnativo sul destino di Roma. Partendo da una premessa inequivocabile (“Le mie idee sono chiare, i miei ordini precisi”), traccia un elenco di interventi e a un certo punto esprime un concetto di carattere generale: “I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine”.

Una premessa dalla quale deriva un imperativo: “Farete largo attorno all’Augusteo”. Con chiaro riferimento al reticolo edilizio che circondava l’antico mausoleo e che a parere del duce ne soffocava la vista. A quella suggestione – coltivata negli anni ma non attuata – a metà degli anni trenta se ne aggiunge un’altra: avevano detto a Mussolini che nei sotterranei dell’Augusteo erano nascosti tesori incommensurabili. Vero? Verosimile? Effettivamente, proprio in quel periodo a pochi metri si erano scoperti nuovi frammenti dell’antica Ara Pacis e a Mussolini torna l’idea di restituire alla zona un carattere monumentale. E dunque parte l’ordine: abbattere le case circostanti e demolire la sala concerti.

Così, la sera del 20 maggio 1936, la conferma di una notizia spiazzante arriva dalla radio: alle 21:15 il presidente della Regia accademia di Santa Cecilia, San Martino Valperga, certifica la chiusura e la demolizione dell’Augusteo, che proprio lui aveva inaugurato ventotto anni prima. Un annuncio pieno di amarezza non soffocata e non scontata, visto che la decisione è stata presa da Benito Mussolini. Nell’intervento radiofonico si ripercorre un consuntivo a dir poco imponente: “Mercoledì 13 maggio il vecchio Augusteo chiudeva le sue porte alla musica dopo ventotto anni di una carriera gloriosa. Durante questo lungo periodo, i direttori e gli esecutori più celebrati di ogni paese apparirono sul podio del Mausoleo romano e in esso risuonarono le più belle opere corali e orchestrali di ogni epoca, di ogni paese, di ogni tendenza.

Così il nome dell’Augusteo conquistò notorietà e ammirazione in ogni angolo del mondo. Qualunque autore aspirava ad avere le proprie opere eseguite all’Augusteo, qualunque esecutore desiderava dare in questo tempio prova della sua valentia. Dalla fondazione vennero eseguite all’Augusteo 1593 composizioni orchestrali, di cui 631 italiane e 962 straniere; 294 opere corali, di cui 72 italiane e 222 straniere; 134 opere di coro con orchestra e organo, di cui 66 italiane e 68 straniere. Parteciparono ai nostri concerti 170 direttori, di cui 77 italiani e 93 stranieri; 442 solisti, di cui 268 italiani e 174 stranieri. All’infuori delle nostre masse parteciparono ai concerti 10 orchestre, di cui 2 italiane e 8 estere, e 25 società corali, di cui 11 italiane e 14 estere […]. Dalla presentazione di tante opere e di tanti artisti trasse uno straordinario profitto l’educazione musicale del pubblico romano […] guardando l’opera compiuta in quei 28 anni, non sappiamo trattenere un sentimento di legittima fierezza. E con una profonda tristezza vediamo ora chiuse le porte del tempio”.

Più di questo il conte non poteva dire, oltretutto dai microfoni dell’Eiar. Poco dopo, con uno spettacolare colpo di piccone del duce in persona, si avvia la demolizione dell’Augusteo. E a quel punto riprende, una volta ancora, l’insolito destino di chiusure forzate e abbattimenti per un anfiteatro che era stato voluto dal fondatore dell’impero romano e nel quale erano sfilati i più carismatici direttori d’orchestra che abbiano mai calcato la scena romana. Dei tesori incommensurabili promessi a Mussolini non si trovò traccia. Non esistevano. E quanto all’impegno del duce di costruire una nuova sala per i concerti, prima dello sventramento il regime aveva indetto un concorso, individuando la zona nella quale collocare il nuovo auditorium: la passeggiata archeologica. Erano stati premiati sei progetti ex aequo, un esito ecumenico che impedì di proclamare un vincitore. Un paradossale destino di inconcludenza che si prolungherà anche nel secondo dopoguerra: viene scelta una nuova zona (il Borghetto Flaminio), si indice, tra il 1949 e il 1951, un concorso e i vincitori – di nuovo ex aequo – sono incaricati di elaborare un progetto di sintesi. La pratica viene espletata, la giuria approva ma non se ne farà nulla neppure quella volta.

Nel frattempo, dal 1937, la stagione dei concerti era stata trasferita al Teatro Adriano, successivamente al Teatro Argentina e infine, dal 1958, all’Auditorium Pio XII in via della Conciliazione, quasi ai piedi della basilica di San Pietro. Bisognerà attendere gli anni novanta perché si concretizzi il progetto di una nuova sala sotto la spinta del sindaco Francesco Rutelli. Con l’inaugurazione, nel 2002, dell’Auditorium Parco della musica disegnato da Renzo Piano nell’area del Villaggio olimpico, Roma tornava ad avere una casa della musica che mancava da sessantasei anni. Da quando era stato abbattuto l’Augusteo, che sotto gli auspici del Comune e l’impulso della Giunta Nathan era diventato una delle sale concerti più prestigiose d’Europa.

I FORI ALLA PORTATA DI TUTTI

L’idea che spinge l’amministrazione popolare a provare ad allargare la fruizione della musica colta è la stessa che ispira le scelte nel campo della storia dell’arte. La preoccupazione di rendere più accessibili e comprensibili i tesori archeologici della Città eterna emerge dal finanziamento che il Comune decide di concedere a un’iniziativa originale: quella proposta da Giuseppe Gatteschi. Archeologo autodidatta, Gatteschi aveva presentato all’assessore Tonelli, che sovrintendeva all’Ufficio storia e arte, un progetto – Restauri della Roma imperiale – centrato su fotografie, disegni e acquerelli, che avrebbero consentito di ricostruire dettagliatamente la fisionomia degli antichi edifici romani, collocando le immagini nei relativi siti di riferimento.

Realizzato con l’aiuto di un fotografo, di alcuni pittori e avallato da un archeologo come Rodolfo Lanciani, il progetto coltivava un obiettivo pedagogico che era descritto da Gatteschi, nella lettera agli uffici municipali: “La maggioranza delle persone che guardano le nostre gloriose rovine senza capir niente, potrà formarsi un concetto esatto della Roma imperiale”. La proposta convince: tra 1908 e 1910 il Comune stanzia un finanziamento annuo di tremila lire per l’acquisto di diciotto opere di Gatteschi. Nel 1911, in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario dell’unità nazionale, i restauri di Gatteschi vengono esposti en plein air, tra i Fori e il Teatro di Marcello.

Certo, un intervento minore ma rivelatore, perché rientra in una corrente di pensiero che in quegli anni caldeggia musei maggiormente accessibili. E incrocia un’altra suggestione: quella attivamente coltivata da Corrado Ricci, direttore generale delle Antichità e delle belle arti al ministero della pubblica istruzione, che pensava fosse utile raccontare la storia per immagini. Il sindaco Nathan interviene in questo dibattito, tra l’altro partecipando a due manifestazioni pubbliche: al tredicesimo Congresso internazionale di archeologia e al decimo Congresso internazionale di storia dell’arte. Agli archeologi chiede di individuare «le pietre miliari» dell’antichità che è giusto restaurare e conservare, agli storici dell’arte pone grosso modo lo stesso quesito. E d’altra parte, quale fosse il giusto equilibrio tra antico e moderno in una città come Roma restò sempre un interrogativo intellettuale per Ernesto Nathan.

In occasione dei cinquant’anni dell’Unità l’amministrazione popolare, come vedremo, si impegnerà per il successo delle celebrazioni e coglierà quell’occasione per qualificare la zona della città che ruotava attorno a villa Umberto, successivamente destinata a prendere il nome di «villa Borghese». Questa grande villa, tipica dell’epoca barocca e nata su impulso del cardinale Scipione Borghese, via via era stata ampliata grazie a sistemazioni e gioielli come la Galleria, sino a quando nell’Ottocento i proprietari la aprirono al pubblico per passeggiate e per feste. Nel 1901 la villa è acquistata dallo Stato, nel 1903 ceduta al Comune (ancora con il nome di «villa Umberto») e finalmente il Piano Sanjust la prevede come epicentro di un’area verde.

E infatti proprio ai margini di villa Borghese, su impulso del Comune, si completa una mirabile operazione, in occasione delle celebrazioni del 1911, e il suo carattere strategico sarà misurabile negli anni successivi: in alcuni dei palazzi realizzati per l’Esposizione universale si insedieranno nel corso del tempo le istituzioni culturali di diversi paesi, come Giappone, Olanda, Austria. E quanto al Palazzo delle belle arti, realizzato per la stessa occasione dall’architetto Cesare Bazzani, assorbirà la preesistente Galleria nazionale d’arte moderna, che grazie alla nuova sede si avvierà verso una stagione molto felice.

A meno di un chilometro in linea d’aria viene inaugurato il giardino zoologico, in quel momento uno dei più moderni d’Italia e impreziosito da una cancellata nella quale campeggiano le teste di elefante disegnate dall’architetto Armando Brasini. Una vasta area che nei decenni successivi resterà tra le più ariose della città: l’equilibrio raggiunto tra spazio naturale e costruito, che è una delle missioni dell’urbanistica, sarà apprezzato dai romani che faranno di questo quadrante uno dei più popolari e vissuti.

UNO STADIO PER LA CAPITALE

Il Campidoglio gioca un ruolo da protagonista anche nella nascita del nuovo Stadio nazionale. Come nel caso dell’auditorium, il sindaco del Blocco non è il promotore diretto, ma contribuisce in modo determinante al suo successo. Imprese assai diverse ma in entrambi i casi, durante l’amministrazione Nathan, si gettano le basi perché auditorium e stadio diventino due istituzioni capaci di mettere in azione gli ideali per i quali erano state concepite. L’idea di un nuovo stadio risaliva a diversi anni prima e all’inizio del Novecento aveva trovato il suo più convinto sostenitore in Bruno Amante, presidente della Federazione scolastica nazionale di educazione fisica.

La sua idea era di realizzarlo sulle rovine dell’antico Circo Massimo e l’occasione per concretizzare quel progetto ambizioso e ardito fu offerta dalla designazione di Roma come sede delle Olimpiadi del 1908. Amante coniò lo slogan «Ellade e Roma» con la speranza che nella capitale italiana si ripetesse «la resurrezione del Panatenaico», lo stadio di Atene ricostruito in occasione delle prime Olimpiadi moderne del 1896. La designazione olimpica, come sappiamo, venne lasciata cadere ma in vista delle celebrazioni per i cinquant’anni dell’Unità d’Italia la speranza si riaccese e Amante ripropose la sua idea, facendosi spalleggiare da testimonial prestigiosi.

Come Gabriele D’Annunzio. Il progetto per realizzare un nuovo Circo Massimo viene affidato nel 1908 a due architetti, Giulio Magni e Giulio Podesti, che mettono nero su bianco uno stadio enorme (lungo 560 metri e largo 90), che nella forma riproduce la «U» del magnifico impianto ateniese. Un progetto immaginato per ospitare, oltre alle manifestazioni di educazione fisica, anche gare ippiche, esposizioni, prove di volo. Nel piano c’è anche una previsione che si sarebbe dimostrata avveniristica: la presenza di alcuni ristoranti per il pubblico. I disegni vengono inviati all’autorità competente. Il sindaco Nathan, che avrebbe preferito un restauro del Circo di Massenzio, per una serie di ragioni (a cominciare dai costi) scarta la proposta. Ma l’idea dello stadio gli piace, rientra tra gli exploit previsti per le feste del cinquantenario e non la lascia cadere. Affida l’incarico di predisporre un progetto simile nella forma a quello bocciato, ma meno esteso e soprattutto da collocare in un luogo diverso, a un architetto molto giovane: Marcello Piacentini. Al momento dell’incarico Piacentini aveva ventisette anni, stava iniziando a progettare residenze per una ricca clientela borghese e quello del Comune è il primo incarico importante (di una lunga, controversa serie) da parte di un’istituzione pubblica.

L’architetto Bruno Zevi, molti anni dopo, scriverà di Piacentini come del giovane “che possedeva ogni requisito per diventare uno dei più qualificati architetti europei e perì a 44 anni”. Una sulfurea espressione per dire che il talento di Piacentini si spense per sempre durante il fascismo, soffocato dalla sua retorica. Una stagione nella quale l’architetto romano (morto settantanovenne nel 1960) si trovò a gestire una delle grandi contraddizioni del regime: voler essere antico e moderno, definirsi discendente dell’impero romano, ma anche edificatore di un nuovo mondo futurista e razionale. In città si apre un dibattito su quale possa essere la soluzione migliore. Il Giornale d’Italia si chiede se sia “necessaria la costruzione di uno stadio nuovo mentre abbiamo il Circo Massimo e il Circo di Massenzio sulla via Appia”.

Erano anni nei quali non faceva scandalo l’idea di rilanciare i grandi siti dell’antichità, riproponendone un uso ludico, simile a quello del passato. Al punto che, in un altro contesto, si era arrivati a ipotizzare una ristrutturazione del Colosseo con legno, cartoni e tele per ospitare competizioni atletiche. Una discussione vivace che l’Istituto nazionale per l’incremento dell’educazione fisica (Inief) che aveva assunto un ruolo primario nella vicenda dello stadio, decise di risolvere attraverso un espediente innovativo: un referendum tra i principali esperti. Si decise che la consultazione avrebbe coinvolto architetti, archeologi, storici dell’arte, oltreché personalità politiche. Furono interpellati, tra gli altri, personaggi come Ernesto Basile, l’architetto palermitano che ridisegnò l’ala nuova di Montecitorio; Guglielmo Calderini, l’autore del «Palazzaccio»; lo scultore Ettore Ximenes; gli scrittori Antonio Fogazzaro e Ugo Ojetti. Venne spedita a tutti una circolare nella quale si sintetizzavano le alternative in campo in vista della realizzazione di uno stadio che fosse in grado di ospitare manifestazioni sportive, in primis ginniche.

Tre le ipotesi. Costruire un impianto ex novo; ricostruire uno degli antichi stadi; realizzarne uno moderno ma sull’area di un circo del passato. L’esito del referendum fu inequivocabile. La sintesi che ne fa l’Inief è eloquente: “Si è tutti d’accordo, quattro soli essendo i dissenzienti e neppur tutti completamente, nella conclusione che lo Stadio deve esser costruito ex novo, su area propria, sgombra da avanzi di antiche costruzioni, rispondente completamente ai bisogni delle generazioni odierne e che attesti la grandezza dell’Italia nuova”. Per quanto riguarda il luogo dove collocare l’impianto, aveva vinto Marcello Piacentini e il suo progetto «ateniese»: scala inferiore a quello del duo Magni-Podesti, ma tracciato simile. Uno dei due lati più corti risultava vuoto, non essendo occupato da tribune ma da un ingresso monumentale, guarnito di statue e orpelli. Il nuovo impianto era pensato come una «vera Casa della vita sportiva, dove i cultori degli esercizi ginnastici potranno trovare, oltre a tutte le comodità e il conforto della vita fisica, un ambiente adatto all’educazione».

A Piacentini si affiancò lo scultore Vito Pardo: il progetto fu mostrato anche al re durante una riunione dell’Inief. Ma a quel punto andava realizzato e in questo senso non tutto era scontato. Il presidente dell’Inief, Luigi Lucchini, lancia un appello al sindaco di Roma affinché lo stadio sia «opera stabile e perenne». Una perifrasi che allude a un robusto coinvolgimento finanziario del Comune. Nel 1910 il Municipio e l’Inief formalizzano l’accordo per costruire assieme lo stadio. Il Comune mette a disposizione il terreno e su un costo preventivato di un milione di lire, fornisce un contributo di 250 mila lire: entrerà in possesso dell’opera dopo vent’anni. L’onere per lo Stato è di centomila lire, lo stesso previsto per il Comitato per le feste del 1911. Il resto verrà da contribuzioni di privati. Nathan, sempre ferrato sulle questioni amministrative, chiese di redigere subito un disegno tecnico, ma da quel momento si apre un intenso contenzioso epistolare sui ruoli di Comune e Inief.

Alla fine lo stadio prende forma, materializzando due miracoli: i lavori erano durati poco meno di due anni e il costo ammontava a circa ottocentomila lire, quasi duecentomila meno del previsto. Inaugurazione il 10 giugno 1911, in tempo per partecipare alle celebrazioni: il nuovo impianto, lungo la via Flaminia, a un chilometro dall’antico Ponte Milvio, venne denominato «Stadio nazionale» e appariva così com’era stato disegnato nel progetto originario di Piacentini: un’arena a ferro di cavallo, come il Panatenaico di Atene, con un grande ingresso classicheggiante, delimitato da colonne corinzie sulle quali tornava lo stemma dell’Unità: diverse copie della Vittoria alata. Sulle tribune la capienza prevista è di quasi trentamila spettatori. Con una differenza tra lo Stadio nazionale di Roma e quello di Torino, prima capitale del Regno: la collocazione della famiglia reale. Nell’impianto sabaudo è inserita una tribuna sopraelevata, mentre nel Nazionale di Roma ai reali spetta il centro della curva, di fronte all’ingresso trionfale. E l’apertura del nuovo stadio piace pure a Civiltà Cattolica, che commenta: “Non fu una cattiva pensata quella del Comune”.

Alla lunga lo Stadio nazionale avrà una storia diversa da quella immaginata dai suoi promotori. Con l’avvento del fascismo diventa uno dei luoghi topici del regime in ambito sportivo: nel 1927 il Partito fascista subentra al Comune, diventato Governatorato, nella gestione dell’impianto. I tempi impongono un cambio del nome – diventa «Stadio del Pnf» – e anche una drastica ristrutturazione. Sempre sotto le cure di Marcello Piacentini: viene creato un rettangolo erboso per il gioco del calcio, uno sport che era uscito dallo stato pionieristico e stava diventando un fenomeno di massa. E l’organizzazione calcistica dimostra una notevole capacità di stare al passo con i tempi. Anche nell’impiantistica: quando nel 1934 l’Italia ottiene l’assegnazione dei campionati mondiali di calcio, si predispone a ospitare le principali partite in bellissimi stadi. Come il «Littoriale» di Bologna. O come il «Giovanni Berta» di Firenze, un capolavoro di ingegneria firmato dal giovane Pier Luigi Nervi grazie alla pensilina priva di sostegni intermedi, ma anche un superbo esempio del razionalismo italiano.

La finale dei Mondiali si svolse a Roma proprio nello Stadio del Pnf e su quel campo l’Italia vinse il primo titolo della sua storia. Nove anni dopo, nello stesso impianto si festeggiò la prima vittoria in un campionato italiano da parte di una squadra della capitale: la Roma. Erano trascorsi trentadue anni dall’inaugurazione di uno stadio voluto, tra gli altri, dal sindaco Nathan. Un impianto che rivelerà una notevole adattabilità al mutare dei tempi: dopo essere stato adottato dal Partito fascista, nel secondo dopoguerra riprende la denominazione originale di «Nazionale», ma a seguito della tragedia di Superga del 1949 viene dedicato al Grande Torino. Nel 1957, per sostenere la concorrenza con il nuovo Stadio Olimpico, è abbattuto, ben ridisegnato e ricostruito in tempi accelerati sotto la guida dell’ingegner Antonio Nervi e da quel momento il Comune gli darà il nome di «Flaminio».


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