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Draghi corre, i partiti annaspano. Le asimmetrie nella bussola di Ocone

Sulla riforma della Giustizia, il premier e la ministra corrono spediti. “L’Europa ce lo chiede”, si diceva qualche anno fa e a maggior ragione potrebbe dirlo oggi Cartabia. E ce lo chiede pure rapidamente. Ora, si potrà anche urlare al vento contro la sovranità perduta, ma chi mai potrebbe prendersi la responsabilità di mettere a serio rischio quei soldi che son vitali per ripartire? La rubrica di Corrado Ocone

C’è una evidente asimmetria fra i ritmi della politica italiana e quelli di Palazzo Chigi; fra le convulsioni fra e nei partiti, da una parte, e il sereno ma inesorabile procedere del draghiano crono programma (come si sarebbe detto una volta).

Di quelle convulsioni il presidente del Consiglio, che pure i partiti li ascolta e rispetta anche se poi decide autonomamente, sembra non curarsene. E tutte le richieste “irricevibili” che gli arrivano con molta cortesia le rimanda al mittente. L’esempio più clamoroso è senza dubbio quello concernente la riforma della giustizia, la quale ci è stata imposta da Bruxelles che l’ha condizionata all’erogazione dei fondi del Recovery Plan.

Marta Cartabia, il guardasigilli di stretta osservanza draghiana (e mattarelliana), ce l’ha messa tutta per mediare, limare i testi, non umiliare forze politiche come i Cinque Stelle. Poi però, alla richiesta di prendersi una pausa di riflessione ulteriore, l’inquilina di via Arenula ha cortesemente fatto presente il “non possumus”. E oggi il provvedimento è stato portato nel Consiglio dei ministri, per fare congiuntamente impegnare tutto il vasto arco di forze che sorregge Draghi.

“L’Europa ce lo chiede”, si diceva qualche anno fa e a maggior ragione potrebbe dirlo oggi la Cartabia. E ce lo chiede pure rapidamente. Ora, si potrà anche urlare al vento contro la sovranità perduta, ma chi mai potrebbe prendersi oggi la responsabilità di mettere a serio rischio quei soldi che son vitali per ripartire? Probabilmente, la legittima sovranità nazionale, che gli altri Paesi esercitano in modo più pieno, l’Italia l’ha persa da tempo, e per sua colpa: debito pubblico, crescita inesistente, produttività a livelli bassissimi, un Paese sull’orlo del fallimento.

Più che perdita di sovranità, dovrebbe perciò parlarsi di uno scambio fra noi e Bruxelles. Uno scambio necessitato, visto che non abbiamo alternative. Forte di questa consapevolezza, Draghi procede perciò spedito sulla sua strada.

Dal punto di vista politico si possono sperare solo tre cose: che le sconfitte che quotidianamente subiscono  le forze politiche servano a farle maturare, come benefiche scosse o come quelle cadute che fanno stare in futuro più attenti i bambini ai primi passi; che dagli shock avuti le stesse forze politiche trovino un equilibrio su cui ricompattarsi, e che il quadro politico stesso venga fuori più consono rispetto a quello emerso nelle ultime elezioni e di cui è espressione dell’attuale Parlamento; che in questo modo l’Italia possa presto risolvere quel problema di deficit democratico che attualmente ha, e che sarebbe insensato non tener presente e ricordare.

L’opzione-Draghi è come una fideiussione per il nostro Paese, ma non spetta a un fideiussore o a un commissario  governare la barca in regime democratico. Come sapevano i vecchi romani che, quando facevano ricorso a loro, stabilivano dei termini ben precisi ad un mandato dettato dall’eccezionalità. D’altronde, al presidente del Consiglio, novello (e democraticissimo sia ben inteso) Cincinnato, non toccherà certo in sorte la campagna, ma direi in modo quasi naturale, a quel punto, il Colle più alto.

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