Il governo polacco si trova dinanzi a un bivio: serrare i ranghi e lanciare il guanto di sfida alle istituzioni europee (mettendo in conto il rischio di dover rinunciare ai fondi europei) oppure abbassare la guardia e sventolare bandiera bianca per ottenere un compromesso “produttivo”
Ancora una volta, Bruxelles tenta di imporre un nuovo ordine a Varsavia. Scatta il terzo round e sul ring si ritrovano a scontrarsi la Corte di Giustizia dell’Unione europea e il governo di Mateusz Morawiecki.
Il 7 luglio la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha rassicurato le famiglie dei liberali e dei progressisti europei, attraverso una serie di parole categoriche, che promettono un intervento netto e tempestivo: “L’Europa non permetterà mai che parti della nostra società siano stigmatizzate sia a causa di chi amano, a causa della loro età, della loro etnia, delle loro opinioni politiche o delle loro convinzioni religiose”. Ovviamente, il gancio destro è stato sferrato sotto i mascelloni dei sovranisti polacchi e ungheresi.
Tuttavia, situazioni complesse come questa necessitano un’analisi priva di contaminazioni ideologiche capaci di riequilibrare i rapporti politici e di smorzare la tensione che appesantisce il contesto.
La polemica ruota attorno al braccio di ferro per la tutela o una reinterpretazione dello stato di diritto tra Polonia e istituzioni comunitarie, tra la Corte di Giustizia dell’Unione europea e il Tribunale Costituzionale polacco in merito alle legittimità delle decisioni assunte dalla Camera Disciplinare della Corte Suprema. La Commissione europea ha annunciato l’avvio di una procedura di infrazione contro Varsavia, al fine di “salvaguardare” i diritti fondamentali delle minoranze, in particolare della comunità Lgbt. Non solo. Permane la diatriba relativa alla riforma della giustizia, ribattezzata dai media non allineati “legge bavaglio”.
Lo scorso 14 luglio, la Cgue ha ordinato l’immediata sospensione delle disposizioni nazionali legate ai poteri della Camera Disciplinare della Corte Suprema emessa per isolare i magistrati non organici alle direttive del PiS di Jarosław Kaczyński. Eppure il Tribunale Costituzionale polacco non arretra, bensì torna all’attacco sfoderando le prerogative dell’ordinamento giuridico nazionale e il primato della Costituzione del 1997 sulla normativa europea. Julia Przyłębska, presidente del TBC dal 2016, ha sentenziato: “Le disposizioni dei trattati Ue sono incostituzionali nella misura in cui obbligano la Polonia ad attuare misure provvisorie relative al sistema giudiziario”.
Ma il “Polexit” non sembra essere un campanello d’allarme attendibile, più che altro un’esercitazione anti-incendio per scongiurare il peggio: un addio dal retrogusto britannico. Né Ursula von der Leyen, né Angela Merkel o la “Grande patrie” di Emmanuel Macron vogliono fare a meno dei vicini polacchi, soprattutto del loro mercato.
Se la filippica lanciata dalla Corte di Lussemburgo (i procedimenti normativi riconducibili alla responsabilità disciplinare dei giudici è contraria al Diritto Ue e non tutela l’autonomia della Camera Disciplinare della Corte Suprema) trova una timida condivisione da parte del ministro Gowin, contemporaneamente scatena l’impeto del guardasigilli Zbigniew Ziobro.
Neanche l’aplomb manageriale del premier Morawiecki sembra essere funzionale alla custodia delle relazioni tra Varsavia e i paladini della tolleranza europea. Secondo Morawiecki, il verdetto discrimina la Polonia, pur essendosi limitata ad introdurre meccanismi simili a quelli di Spagna e Germania. Qui subentra l’eco e l’indignazione di Ziobro, a causa del “trattamento coloniale” della Polonia, alla cui base c’è una classificazione discriminatoria dei Paesi membri. Insomma, a quanto tuonano gli esponenti della “Destra Unita” la vera politicizzazione delle questioni interne proviene da Bruxelles, minando la tanto cara sovranità nazionale e la facoltà di autodeterminazione dei popoli.
La pronuncia (attesa per il 15 luglio) del Tribunale Costituzionale riguardo il ricorso presentato dal premier Morawiecki, sul conflitto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario, è stata posticipata al prossimo 3 agosto. Per di più, la valutazione di Bruxelles delle suddette risoluzioni è stata ostacolata da sentenze divergenti promulgate dai vari tribunali amministrativi polacchi, che prontamente hanno invalidato le risoluzioni sulle “zone free”; tra i quali: Istebna, Klwów e Serniki. Ciò nonostante, il tribunale di Lublino, nel caso di una risoluzione dell’assemblea provinciale, ha dichiarato che non può essere oggetto di controllo da parte di un tribunale amministrativo. La vera posta in palio da salvare è il “Piano Nazionale di Ripresa”, ovvero il futuro dello Stato polacco.
Certo, il clima interno non agevola l’approdo ad un compromesso: l’istituzione delle “zone libere dall’ideologia Lgbt”, e la legge che implicherebbe una censura bella e buona a TVN (il principale canale televisivo controllato dall’americana Discovery), agitano l’opinione pubblica e polarizzano il dibattito. E le prese di distanza di Gowin e dei moderati al governo non saranno sufficienti per congelare le politiche opache e discutibili promosse da Prawo i Sprawiedliwość (Diritto e Giustizia).
Forse, è proprio questa la strategia ingegnata dal team di Kaczyński: fornire un pretesto per staccare la spina all’attuale esecutivo, non concedere alle forze d’opposizione il tempo necessario per organizzare truppe e generali, soprattutto dopo l’acclamato ritorno di Donald Tusk, e basare la propria campagna elettorale sulla realizzazione del “Polish Deal”, il vello d’oro tanto agognato dagli elettori delle zone rurali e dai ceti popolari. In effetti, è nota l’insofferenza di Kaczyński verso i propri alleati (Porozumienie del vice premier Gowin in primis), questo potrebbe spingere il leader di “Diritto e Giustizia” a interpretare l’appuntamento elettorale come un’opportunità per epurare i conservatori più moderati dal nuovo esecutivo ed incanalare, nuovamente, l’azione di governo verso un’agenda politica dedita al protezionismo e al nazionalismo.
Quindi, il governo polacco si trova dinanzi a un bivio: serrare i ranghi e lanciare il guanto di sfida alle istituzioni europee (mettendo in conto il rischio di dover rinunciare ai fondi europei) oppure abbassare la guardia e sventolare bandiera bianca per ottenere un compromesso “produttivo”.
È importante ricordare che il premier Morawiecki ha contestato e bollato come “incostituzionale” l’art.19 del Trattato Ue, che impone uno scudo giudiziario adeguato ai cittadini nei campi coperti dal Diritto dell’Unione.
Si prevede un’estate calda, afosa e alquanto caotica. Il match dovrebbe concludersi a breve. Risulta vitale giungere ad un compromesso prima del gong finale. Già, un concetto che spesso noi europei tendiamo a vituperare, dimenticando che anche la mediazione è una scelta. Un modo per scansare la profezia di Tryon Edwards, il teologo statunitense che scrisse: “Il compromesso non è altro che il sacrificio di una cosa buona o giusta fatto nella speranza di conservarne un’altra; troppo spesso si finisce per perderle entrambe”.
Una soluzione per incitare i pugili ad appendere al muro i guantoni e abbandonare il ring.