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Italia-Emirati, come ricucire lo strappo. I consigli di Sanguini

Di Armando Sanguini

Leggerezze, errori di valutazione, cattivi consigli. Ci sono tante ragioni dietro la crisi diplomatica fra Italia ed Emirati Arabi Uniti. Ce ne sono molte di più per ricucire subito uno strappo che rischia di infliggere un grave danno all’interesse nazionale. Il commento dell’Ambasciatore Armando Sanguini, Senior advisor Ispi

Pace e guerra sono due termini semplici, chiari che identificano altrettante situazioni nettamente contrapposte, come il nero e il bianco e viceversa. È così anche nel vissuto della storia dei popoli, ma nel passaggio da l’una condizione all’altra, si stende una vasta zona grigia  dove cioè non c’è ancora guerra ovvero non si è ancora realizzata la pace.

È una zona ambivalente che va gestita con la massima cura, nel metodo e nel merito, perché da come viene affrontata si può aprire un orizzonte di pace o aprirsi un precipizio conflittuale.

Ebbene in questi ultimi mesi l’Italia è riuscita a far precipitare una situazione di pace e collaborazione in una deriva di criticità di cui non si sentiva proprio il bisogno. E ciò per ragioni di merito, cioè per una buona intenzione improvvidamente portata avanti, e per ragioni di metodo, senza cioè aver appropriatamente utilizzato un meccanismo capace di far ponderare i pro e i contro della situazione.

Mi riferisco in concreto alla crisi aperta dall’Italia con gli Emirati Arabi Uniti – un Paese piccolo ma geopoliticamente ed economicamente strategico – all’inizio dell’anno. Una crisi provocata da una decisione con la quale, in nome di valori importanti ma discutibilmente invocati, si sono disconosciuti impegni assunti e operativi con prevedibili riflessi critici sull’immagine, sulla credibilità e sull’affidabilità di cui il nostro paese, che vive di estero e con l’estero, ha vitalmente bisogno.

In estrema sintesi e senza ripercorrere i dettagli della questione, tra l’altro  già opportunamente affrontata su questo giornale, basti ricordare che nel gennaio scorso l’Italia – attraverso un atto del Ministero degli Affari Esteri – ha deciso la revoca, cioè l’azzeramento, delle autorizzazioni già date a suo tempo all’export di materiali della difesa, verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Ciò a causa della loro partecipazione alla guerra nello Yemen col suo derivato di morte di civili e, in particolare, di minori.

Val la pena precisare che le autorizzazioni di cui si parla erano state concesse quando la guerra in Yemen era già in corso. Che si tratta di un conflitto deprecabile in sé e per le sue devastanti conseguenze umane e materiali. E che questo conflitto nasce ad opera degli Houthi con un sanguinoso colpo di Stato, peraltro ancora in corso, mirante a rovesciare un governo legittimamente eletto. Governo che per contrastarlo ha chiesto l’aiuto militare della confinante Arabia Saudita che ha messo assieme una coalizione di 8 Paesi amici (tra i quali gli Emirati) con la benedizione della Lega araba e l’appoggio esterno degli Stati Uniti.

Ricordiamo pure che si tratta di una guerra dalla quale gli Emirati si erano di fatto ritirati ben prima della revoca decisa dall’Italia; circostanza dirimente ma che era evidentemente sfuggita ai decisori italiani della revoca.

Forse era loro sfuggito anche un altro fatto non secondario e cioè il sostegno anche militare assicurato dall’Iran ai rivoltosi Houthi, specialmente in funzione anti-saudita. Houthi che, ricordiamolo, controllano ancora parte importante del Paese e che durante questa deprecabile guerra tutto sono stati, come denunciato anche in sede Onu, salvo che rispettosi dei diritti umani dei civili e in particolare dei minori.

Vien da chiedersi se gli “ispiratori” della decisione italiana di revocare impegni già in vigore non avrebbero potuto spendersi più utilmente in un’azione diretta a convincere gli Houthi ad accettare e soprattutto a rispettare le ripetute iniziative di pace negoziata attraverso le Nazioni Unite. E ponderare il rapporto costo-benefici di una condotta che ha finito maldestramente per colpire anche l’export dei pezzi di ricambio della pattuglia acrobatica degli Emirati, non certo una pattuglia bellica che tra l’altro è nata e stava crescendo nel segno di una collaborazione con l’Italia partita con l’acquisto di aerei di nostra fabbricazione e  alimentata con la nostra collaborazione tecnica.

Viene anche da chiedersi se questi stessi ispiratori e i relativi sodali stranieri non avrebbero potuto più costruttivamente farsi promotori di un embargo o comunque di un’iniziativa del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite mirante ad affermare il bando dei materiali della difesa anche per i nostri concorrenti esportatori di cui, con questa decisione, siamo diventati paradossalmente indiretti promotori.

Nel metodo poi il governo del momento (Conte2) avrebbe potuto procedere ad una valutazione più ampia e articolata della questione e dunque dei nostri interessi in gioco, magari attraverso un concerto interministeriale simile a quel comitato a suo tempo istituito ai sensi della legge 185 – e lasciato improvvidamente cadere – proprio per consentire di assumere decisioni ponderate in materia di esportazione di armi e affini.

Aggiungiamo a ciò i disgraziati seguiti dell’Alitalia (dove si è aperto un processo penale e una procedura di richiesta di risarcimenti a carico dell’investitore emiratino dove fra gli inquisiti della magistratura italiana c’è anche un membro della famiglia reale di Abu Dhabi). E quelli della Piaggio dove, secondo lo stesso ministro Di Maio “il nostro Paese ha invitato un investitore straniero ma non è poi stato in grado di garantirgli quello che gli aveva assicurato”.

Aggiungiamo inoltre lo schieramento dell’Italia a fianco della Turchia di Erdogan in Libia a fronte degli Emirati decisamente ostili alla Fratellanza musulmana di cui lo stesso Erdogan si fa interprete e il paladino. Anche in Libia.

A fronte di tutto ciò, è difficile sorprendersi del fatto che il governo emiratino abbia ravvisato nel comportamento italiano un sostanziale profilo di inspiegabile e non motivata ostilità. Ostilità che certo non è stata attenuata dagli esiti della missione effettuata dal ministro Di Maio nel novembre 2020, esaltata da parte nostra come un momento di definizione di un “dialogo strategico” tra i due Paesi. Tanto meno nel corso della missione, sempre di Di Maio, dello scorso 25 aprile a crisi ormai intervenuta.

Tant’è che qualche settimana dopo, tra i primi di giugno e l’inizio di luglio, è arrivata l’inequivoca risposta di Abu Dhabi: dapprima il divieto di sorvolo del suo spazio aereo a un C130 dell’Aeronautica militare italiana diretto a Herat, in Afghanistan, per la cerimonia dell’ammainabandiera del tricolore nella base di Camp Arena; il due luglio con la chiusura della base di al Minhad, dove operava un centinaio di militari italiani e che costituiva un importante pilastro logistico per il supporto alle nostre missioni in Iraq, Corno d’Africa e in quella ora conclusasi in Afghanistan.

Se c’è da chiedersi il senso di queste due missioni non v’è dubbio che da gennaio in avanti si è consumato il passaggio da una situazione di pace e di collaborazione a una rischiosa deriva di crisi che certo i paesi del Golfo, e non solo, hanno letto con sconcerto; anche dal Qatar  e nel più ampio contesto regionale, dal suo alleato turco e dall’Iran, non certo due campioni nel campo dei diritti umani e nella complessiva stabilità del Medio Oriente. Tutti dubitano di un governo che mette disinvoltamente in gioco la sua credibilità e affidabilità.

Benvenuta è stata pertanto, ancorchè tardiva, la decisione del 7 luglio del governo italiano – Ministero degli Esteri, d’intesa con il Ministero della Difesa e, naturalmente, con Palazzo Chigi, ispiratore del cambio di rotta – di ridurre l’ampiezza del divieto di esportazione deciso in gennaio.

Ma è lecito dubitare che questa decisione sia sufficiente a superare le forti riserve maturate da allora in poi in Mohammed Bin Zayed, il principe ereditario degli Emirati, nei riguardi dell’Italia.

Occorre ricostituire appieno la nostra incrinata credibilità e affidabilità presso quel governo degli Emirati perché è un partner di rilievo geopoliticamente ed economicamente e perché è in gioco non solo la questione peraltro non irrilevante delle forniture della difesa, ma anche della collaborazione politica in tutto il Medio Oriente e oltre.

Suggerirei sommessamente un nuovo, più personalizzato intervento del Presidente del Consiglio e un’attenta riflessione sulle ragioni per le quali si è affermato l’adagio che recita “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

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