Il Partito democratico ha il merito, finalmente, di voler (provare) a riformare i regolamenti parlamentari per rendere più efficienti le attività di Camera e Senato in rappresentanza dei cittadini e propone di impedire il trasformismo per legge. Sembra una riforma saggia. Ma non lo è. Ecco perché nell’intervento di Raffaello Morelli e Pietro Paganini, Competere
Il Partito democratico vuole inibire il trasformismo parlamentare, cioè il cambio di gruppo di appartenenza di ciascun rappresentante eletto. Per farlo, all’interno della proposta di riforma dei regolamenti parlamentari di per sé lodevole, ha introdotto una norma per disincentivare il passaggio da un gruppo all’altro. Chi abbandona il gruppo con cui è stato eletto perde qualsiasi diritto di appartenenza ad altro schieramento, compreso il Misto. Sarebbe un eletto senza gruppo e quindi senza i non trascurabili benefici che quest’apparenza comporta.
È una norma pericolosa e liberticida che finisce per illudere e confondere i cittadini. I parlamentari devono avere il diritto di cambiare gruppo di appartenenza in rappresentanza nell’interesse dei cittadini che li hanno votati. Le furbizie e i calcoli personali di alcuni parlamentari (dovessero essere anche tanti) non possono essere impediti per legge bloccando le scelte genuine di altri eletti nell’interesse dei cittadini. Devono essere i cittadini a punire o premiare quella scelta attraverso il voto e quindi una legge elettorale consona.
Il Partito democratico ha il merito, finalmente, di voler (provare) a riformare i regolamenti parlamentari per rendere più efficienti le attività di Camera e Senato in rappresentanza dei cittadini. È un atto dovuto quanto urgente dopo il successo del referendum e quindi della riforma per la riduzione dei parlamentari a 600.
In questo contesto il trasformismo parlamentare non ha alcun rilievo, cioè non causa alcuna frenata delle attività istituzionali. Non è nemmeno un pericolo per la democrazia parlamentare.
Un parlamentare dovrebbe poter essere libero di abbandonare una forza parlamentare che non rappresenta più i cittadini che lo hanno eletto e trovare un’altra collocazione che meglio gli consenta di perseguire gli interessi della comunità.
Il Partito democratico ha colto che i numeri sono importanti per conservare l’idea che, una volta compiuta la scelta elettorale, i gruppi parlamentari siano i soli referenti dei confronti nelle Camere. Di conseguenza soffiano sull’emotività e sullo sdegno dei cittadini verso il parlamentarismo. La pratica del trasformismo è stata crescente. In tre anni si sono registrati 259 cambi di casacca: 138 deputati hanno cambiato gruppo per 171 volte; 65 senatori hanno cambiato casacca 88 volte; un Parlamentare ha cambiato cinque gruppi; in otto lo hanno cambiato tre volte.
Con questa legge il Partito democratico pensa di conquistare voti tarpando le ali a chi vorrebbe cambiare gruppo nell’interesse dei cittadini. Chi cambia è un trasformista che tradisce il mandato parlamentare. Ma non è sempre così. E con questa proposta di legge il Partito democratico arreca in pratica un danno al parlamentarismo.
Il problema, invece, è nel processo di selezione dei candidati al Parlamento, e quindi nei processi interni ai partiti, e nella legge elettorale.
Vi è anche un problema di comunicazione tra candidati, eletti, e cittadini. Così come funzionano oggi processi di selezione, legge elettorale e responsabilità dei parlamentari eletti (accountability), i cittadini hanno poco o addirittura per nulla controllo dell’operato degli eletti nel proprio collegio.
Non possono – o lo potrebbero fare con molta fatica e impegno temporale (in questo i media non aiutano) – monitorare il comportamento dei propri eletti, e quindi decidere se un’eventuale cambio di gruppo sia stato necessario e benefico.
Introducendo più trasparenza sarebbero i cittadini a scegliere. Il Partito democratico invece, alla ricerca ideologica di una legge perfetta che decida per i cittadini, vuole limitare la libertà di iniziativa politica. In realtà, così facendo, conferisce ancor meno potere agli elettori (attraverso il voto) assegnandone ancora di più ai partiti e ai capo partito che fanno le liste elettorali. Fidelizza ancor di più gli eletti al capo, distogliendoli dal vero obiettivo che non è rappresentare il partito e i suoi capi, ma i desideri dei cittadini.
Il Partito democratico dimostra di volere un parlamentarismo snaturato in partitocrazia (allineandosi, una quindicina di anni dopo, alla proposta di Silvio Berlusconi di far votare solo i capigruppo, dando a ciascuno di loro tanti voi quanto erano i deputati del rispettivo gruppo).
Il Partito democratico dovrebbe impegnarsi a sbloccare le liste in una nuova legge elettorale (o collegi uninominali o proporzionale con preferenze), spingere per un voto sui progetti alternativi più che sui simboli, favorire la trasparenza circa i comportamenti politici, avvicinare gli eletti ai propri colleghi e stimolare il potere decisionale (e quindi l’interesse) dei cittadini. In altre parole, si dovrebbe preoccupare di come riattivare la partecipazione civile, non l’ubbidienza agli ordini di partito. Ed anche capire che la scarsa affluenza al voto è sintomatica di tutto questo impegno a sminuire il parlamentarismo.