Il presidente (con i suoi ghostwriter) pubblica un testo che ricostruisce la storia delle popolazioni russe e ucraine. Forse vuole mettere in discussione i confini attuali? O intende riaprire il confronto con Kiev, con cui, oltre alla Crimea e alla situazione nel Donbass, è aperta ancora la partita del transito del gas e del debito ucraino verso Mosca? Le riflessioni di Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)
L’aveva annunciato durante la Linea diretta, ed è stato di parola, Putin, a proposito dell’articolo sulla storia delle relazioni russo-ucraine. Il presidente russo non è nuovo a incursioni nel campo della storia, già in passato sono apparsi articoli a sua firma su temi del passato considerati importanti dal Cremlino per la politica d’oggi, e questi testi permettono di rilevare alcuni elementi interessanti sul retroterra storico e culturale, oltre che di Putin, dei ghostwriter e degli spin doctor al suo servizio.
Circa un anno fa, nel giugno 2020, vi era stato un altro articolo del presidente russo, apparso nella rivista americana d’orientamento conservatore National Interest e intitolato The real lessons of the 75th anniversary of World War II, che aveva suscitato le accese proteste di Varsavia per le accuse rivolte alla politica polacca di fine anni Trenta di aver flirtato con la Germania nazista. Il tentativo di Putin era chiaro, provare a rispondere alla visione portata avanti da alcuni paesi dell’Europa orientale di una responsabilità dell’URSS nello scoppio della Seconda guerra mondiale, basata sull’interpretazione del patto Molotov-Ribbentrop come alleanza vera e propria tra Stalin e Hitler.
L’articolo apparso ieri 12 luglio si pone compiti diversi, non esclusivamente di politica estera ma anche interna, e presenta numerosi passaggi provenienti dalla retorica del nazionalismo russo della tarda età imperiale, con alcune variazioni sul tema. Già il titolo del testo, Sull’unità storica dei russi e degli ucraini (Ob istoricheskom edinstve russkikh i ukraintsev), mette in chiaro la tesi di fondo esposta da Putin, l’idea dell’assenza di una identità ucraina originale e distinta da quella russa, tesi mai dichiarata apertamente, ma presente in modo implicito.
Per dare legittimità a questa propria interpretazione, il presidente (o il ghostwriter) ricorre alla ricostruzione degli eventi storici che hanno portato alla situazione attuale, prendendo le mosse dalla Rus’ di Kiev, primo stato degli slavi orientali, descritto nell’articolo come dotato di un’unica identità etnica e religiosa, da cui discendono russi, bielorussi e ucraini. In realtà, la Rus’ era comunque divisa in principati, spesso in lotta tra di loro, e l’invasione mongola del XIII secolo, che devasta i principati presenti nelle attuali Russia centrale e Ucraina nord-orientale, pone fine a quell’epoca, creando le condizioni per un lungo processo di differenziazione tra gli slavi orientali, giunto a compimento solo nel corso della prima metà del XX secolo.
Mentre i principati a nord-est sono sotto il controllo dell’Orda d’oro, le terre occidentali della Rus’ entrano a far parte del Granducato di Lituania, altro stato medievale dell’Europa orientale, dove le comunità slavo-orientali mantengono la propria identità confessionale, e Putin sottolinea questo dato, considerato evidentemente fondamentale a sostegno della propria posizione.
Ma chi ha infranto l’unità spirituale e etnica degli slavi orientali, nel corso del XVII e del XVIII secolo ritrovatisi all’interno dell’impero russo? Secondo il presidente russo, ad aver operato per la differenziazione della “grande nazione russa” (bolshaya russkaya natsiya), che includeva grandi russi, bielorussi e piccolo-russi (ovvero gli ucraini), sono stati nell’ordine la Polonia, l’Austria-Ungheria e infine i bolscevichi. A detta di Putin, l’emergere del movimento nazionale ucraino ha visto vari passaggi nella propria costruzione, prima come frutto dell’azione della nobiltà polacca, artefice dell’unione di Brest nel 1596 tra le comunità ortodosse e la Chiesa cattolica, che portò alla nascita della Chiesa greco-cattolica, e in seguito dell’interesse da parte dell’impero asburgico a indebolire la Russia zarista.
Proprio le interferenze prima polacche e poi austriache sono considerate responsabili dell’introduzione delle misure di censura e limitazione dell’uso della lingua ucraina prese durante il regno d’Alessandro II, la circolare di Valuev nel 1863 e l’editto di Ems del 1876 (a quest’ultima Putin attribuisce erroneamente la data 1872). “Queste decisioni – scrive il presidente – vennero prese sullo sfondo degli eventi drammatici in Polonia e della tendenza dei leader del movimento nazionale polacco di utilizzare la “questione ucraina” per i propri interessi”.
Alle tendenze ucrainizzanti Putin contrappone l’esistenza di un vivace panorama culturale piccolo-russo, che declinava la propria identità come variante regionale all’interno della “grande nazione russa”, tralasciando come da questo ambiente emerse il quotidiano «Kievlianin», vero e proprio punto di riferimento per le posizioni antiucraine e antipolacche nelle regioni occidentali dell’impero. Nell’editoriale del primo numero del giornale, firmato dal fondatore Vitaly Shulgin, si ribadiva che Kiev e le province raccolte nell’omonimo governatorato-generale non erano né polacche, né ucraine, perché quella terra era “russa, russa, russa”.
Le responsabilità delle autorità austro-ungariche nello sviluppo del movimento nazionale ucraino vengono denunciate da Putin nel dettaglio, riferendosi al ruolo svolto dagli attivisti ucraini nella Galizia orientale all’epoca sotto il controllo di Vienna e condannando la persecuzione (vera) delle tendenze russofile nella regione. Quel che dimentica il presidente nel testo però è che a dare la possibilità di uno sviluppo politico dell’identità ucraina, rendendo la Galizia orientale il “Piemonte” ucraino tanto temuto dai nazionalisti russi, erano state le libertà costituzionali introdotte nelle province asburgiche all’indomani del Compromesso che trasformò l’impero in Austria-Ungheria. Vienna è accusata di aver utilizzato la carta ucraina nella Prima guerra mondiale, ma le questioni nazionali durante il conflitto vennero adoperate da tutte le potenze belligeranti, si pensi al sostegno alla costituzione di unità cecoslovacche da parte dell’Intesa, la maggior parte delle quali farà parte della nota legione stanziata in Russia e protagonista della guerra civile nel 1918.
Ma i principali imputati della divisione della grande nazione russa, nel testo di Putin, sono i bolscevichi. La politica delle nazionalità di Lenin e le misure di “korenizatsiya”, ovvero di costruzione di comunità nazionali, dai villaggi alle repubbliche, con proprie identità etno-culturali, vengono attaccate da Putin come responsabili della frantumazione dello spazio post-imperiale; secondo il presidente “fu proprio la politica nazionale sovietica che consolidò a livello statale la divisione tra i tre popoli slavi, russo, ucraino e bielorusso, al posto della grande nazione russa, del popolo uno e trino composto da grandi russi, piccolo-russi e bielorussi”.
Ritorna l’accusa, già espressa altre volte, del diritto alla secessione delle repubbliche inscritto nella Costituzione sovietica del 1924, e poi confermato nelle successive edizioni, di aver agito da “bomba a scoppio ritardato”, responsabile di aver distrutto non solo l’URSS, ma ogni possibilità di dominio per Mosca. Tutti i dirigenti sovietici vengono accusati di aver indebolito la Russia e, nel caso specifico, aver rafforzato l’Ucraina, integrando in essa territori considerati estranei ad essa, dal bacino del Donbass alla Bucovina e Transcarpazia, fino alla Crimea, ceduta nel 1954 nell’ambito della celebrazione dei trecento anni del trattato di Pereyaslav, che sancì l’alleanza tra i cosacchi e Mosca in chiave antipolacca.
A tal proposito, Putin rammenta le parole di Anatoly Sobchak, primo sindaco della San Pietroburgo post-sovietica e suo padrino politico, che nel 1992 aveva sostenuto come, con la fine dell’URSS, le nuove repubbliche indipendenti avrebbero dovuto rinunciare ai territori acquisiti durante il periodo sovietico. Una posizione alquanto singolare, visto come il presidente, descrivendo il susseguirsi dei vari governi ucraini durante le convulse fasi della guerra civile tra il 1918 e il 1920, definisce l’Ucraina dell’epoca un “quasi-stato”.
Subito però Putin sostiene come la Federazione Russa si sia mantenuta fedele all’accettazione della nuova realtà geopolitica scaturita dal crollo sovietico e, anzi, abbia fatto il possibile e anche di più per contribuire alla solidità e alla prosperità dell’Ucraina indipendente, ricevendo in cambio, dal 2014, l’ostilità dell’élite ucraina, ritenuta colpevole di non aver adempiuto allo sviluppo economico del paese e di aver rifiutato a più riprese la mano tesa di Mosca.
In questo senso, denuncia il presidente russo, i fautori dell’allontanamento dalla Russia hanno ripreso i progetti sviluppati prima dai polacchi e dalle autorità austroungariche, e poi dai nazisti e dall’Organizzazione dei nazionalisti ucraini, non comprendendo come in realtà siano al servizio degli interessi delle potenze straniere. Ultimo di questi progetti, secondo Putin, è la legge sui popoli nativi dell’Ucraina, da cui sono esclusi i russi, minacciati di ucrainizzazione forzata e di perdita della propria identità storica e culturale.
Non è la prima volta, né sarà l’ultima, quando ai fini dei compiti politici immediati si assegnano a formazioni statali caratteristiche nazionali e etniche in realtà moderne e scaturite dall’emergere del nazionalismo come forza culturale e politica nel corso dell’Ottocento e del Novecento, e non è una prerogativa esclusivamente russa, dato che, giusto per restare nell’area, anche in Ucraina vi è chi ritiene la Rus’ kieviana la vera e propria antenata dello stato odierno.
Vi è però una domanda quasi ovvia: perché Putin è interessato a sollevare una polemica sulle origini storiche della nazione ucraina? A leggere il testo, sembrerebbe, nonostante la precisazione in conclusione di ritenere ormai un fatto l’esistenza di comunità nazionali distinte, che il presidente voglia mettere in discussione i confini attuali e assurgere, novello Aleksandr Nevsky, a difensore dei russi d’oltreconfine, minacciati della perdita della propria identità. In realtà il testo di Putin potrebbe servire a riaprire il confronto con Kiev, con cui, oltre alla Crimea e alla situazione nel Donbass, è aperta ancora la partita del transito del gas e del debito ucraino verso Mosca.
Confronto che si preannuncia non privo di colpi di scena, e l’articolo potrebbe essere una mossa per mettere in chiaro quali punti il Cremlino considera irrinunciabili nella normalizzazione delle relazioni con l’Ucraina, forte della presenza di una numerosa comunità russofona nel paese, che si trova in una situazione difficile, stretta tra due nazionalismi con velleità di potenza. La presenza nel testo di Putin di passaggi e di termini riconducibili alla tradizione del nazionalismo russo d’inizio Novecento, che vide in Kiev e nel Club dei nazionalisti russi una delle proprie espressioni più famose, testimonia non solo di essere a conoscenza delle posizioni di Vasily Shulgin, leader della destra nazional-conservatrice monarchica alla Duma tra il 1908 e il 1917, ma di considerarle parte del proprio patrimonio ideale.
Un patrimonio ideale che però è ben più complesso della pura e semplice adesione agli stilemi del nazionalismo della tarda età imperiale, perché riesce a coniugare, con una lettura molto post-moderna, Alessandro III e Sobchak, Stolypin e Gagarin, la vittoria sul nazismo e l’acceso antibolscevismo, uomini e valori inconciliabili tra loro ma che è possibile presentare insieme nell’ottica di una rappresentazione della Russia odierna come grande potenza, pronta a rivendicare sulla scena mondiale il proprio ruolo attivo.