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Il ritiro dall’Afghanistan non sia un abbandono. Scrive Elisabetta Trenta

Il ritiro dall’Afghanistan è compiuto, ma il Paese è lontano dalla pace. Intanto la Turchia aspira a prendere il posto degli americani, prospettiva che per noi potrebbe non essere delle più gradevoli. Il commento di Elisabetta Trenta, già ministra della Difesa

Alla fine il ritiro dall’Afghanistan si è concluso nei tempi, anche in leggero anticipo, e i complimenti vanno tutti alla struttura militare per aver saputo far fronte, fino alla fine, a qualunque genere di avversità, che fosse il campo, o anche le complessità della politica e della diplomazia, completando una missione fra le più difficili e prolungate della storia del Paese.

Anche un ritiro a operazione non compiuta può avere una sua dignità, che si esplica in gesti, in modi e in tempistiche. E quello italiano ha rispettato ogni forma, dall’ammainabandiera al recupero dei mezzi, fino alla messa in sicurezza di tutto il personale locale che ha cooperato con noi.

Certo, l’incespico finale dei problemi diplomatici con gli Emirati Arabi è parso una sorta di affronto finale, un ennesimo sussulto in coda, ma anche questo è stato bypassato con professionalità dai militari, e in ciò va riconosciuto il merito in particolare al Comando Operativo di Vertice Interforze (Coi) e al suo comandante, il generale Luciano Portolano.

Un obiettivo per il futuro è che si torni a dare dignità allo strumento diplomatico, senza condizionarne i modi e i tempi per obiettivi di politica interna. Fatto salvo il diritto del governo di prendere decisioni difficili, dopo averne valutato le conseguenze (non voglio entrare in questo momento nell’esame della decisione che ha portato all’inasprimento delle relazioni con gli Emirati) occorre ricordarsi che la modalità con cui si comunica una decisione incide tantissimo sul modo con cui questa verrà accolta.

E non adagiamoci sull’essere fuori dall’Afghanistan. Essere fuori con i mezzi e il personale, auspicabilmente non deve essere un tirarsi fuori dalla costruzione di un percorso la cui edificazione così tanto è costata, agli afghani innanzitutto, ma anche al tributo di stenti e di sangue del nostro Paese.

Restano le speranze di tanti afghani che lasciamo e che non vanno deluse, restano le vite e il futuro di una intera comunità di collaboratori intrisa della nostra cultura che oggi ci segue, ma che in futuro non deve essere trascurata e abbandonata sul nostro territorio alla frustrazione e alle infiltrazioni, ma deve diventare un ponte diplomatico e di amicizia per riaprire domani, o fra anni, un canale di scambio e pacificazione con l’Afganistan che sarà.

Certo, resta la situazione militare assai incerta per l’esercito regolare afghano, addestrato anche con il nostro contributo, cui, oltre alla pericolosa riduzione di copertura aerea degli Stati Uniti, il nostro ritiro e quello tedesco lasciano pericolosamente scoperto il fronte sud e l’area di Herat. I talebani stanno recuperando velocemente terreno e ci si aspetta un’estate di combattimenti prima che, forse, si possa arrivare a un vero sforzo verso una negoziazione tra governo e talebani. E mentre gli afghani che possono fuggire cercano di farlo, il Paese si avvia pericolosamente verso la guerra civile.

Intanto c’è un Paese, la Turchia, che aspira a prendere il posto degli americani, prospettiva che per noi potrebbe non essere delle più gradevoli rispetto alle nostre prospettive globali. Un subentro turco, militare, forse anche come partner nelle ricostruzioni, che qualificherebbe la Turchia come presidio di ultima istanza delle alleanze occidentali nei territori fuori controllo, potrebbe ingigantirne la possibilità di penetrazione “autorizzata” in aree crescenti di Africa, Medio Oriente, Balcani, Caucaso, Asia Centrale.

(Nella foto: 2018, Elisabetta Trenta, allora ministra della Difesa, in visita al contingente militare in Afghanistan)

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