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Un caso Fornero non c’è. Vincenzo Scotti spiega perché

Di Vincenzo Scotti

Bisogna ridimensionare la polemica aperta dall’invito alla Fornero, di cui non si conoscono chiaramente le modalità di attuazione. Per semplificare: non siamo dinanzi a un presidente del Consiglio che potrà far dire ai suoi concittadini che le scelte che si accinge ad adottare sono le proposte della Fornero. Il commento di Vincenzo Scotti, membro del Gruppo dei 20

L’invito di Draghi alla ex ministra Fornero a collaborare allo studio delle questioni previdenziali ha riacceso lo scontro politico non solo su un aspetto particolare del sistema entrato nel linguaggio corrente: quota 100. L’occasione è utile, come vedremo, per riprendere la tematica dei tempi del lavoro e del riposo nella nuova società digitale.

L’accelerazione delle transizioni indicate dalla Unione Europea e dal governo italiano ci pongono di fronte alla necessità di affrontare il modo con cui si presentano nell’immediato futuro quel tipo di problemi che continuiamo a definire del lavoro e delle pensioni. La società del rischio è sotto la pressione delle nuove dinamiche demografiche, della società del post con le nuove forme e organizzazioni del lavoro e delle relazioni tra il tempo dei lavori e quello dei riposi.

Non parteciperò allo scontro politico sull’opportunità o meno dell’invito di Draghi alla Fornero. Nessuno può mettere in discussione la piena libertà del Presidente del Consiglio di scegliere i suoi consiglieri in una fase in cui la complessità del governare impone a Draghi di essere tempestivo nelle decisioni e non lasciarsi travolgere dalla varietà delle opinioni dei tecnici fondate su conoscenze critiche.

In simili passaggi decisivi occorre che il responsabile del governo utilizzi le sue doti di ascolto e di sintesi per decisioni nell’interesse del Paese. In questi passaggi difficili per le democrazie rappresentative i Parlamenti possono concedere la fiducia a una personalità cosiddetta tecnica per una tregua dello scontro politico, e può anche succedere che la scelta porti ad una forte personalità politica, capace di governare, di proporre al Paese percorsi strategici e non semplici misure di emergenza.

In una recente conferenza all’Accademia dei Lincei, Draghi ha confermato quello che aveva già dimostrato, cioè consapevolezza: cosa significa scegliere assolvendo ad una missione politica di uomo di stato, formato nel percorso di missioni politiche internazionali. Rinviando i lettori alla lettura attenta di quella conferenza richiamerò una affermazione rivelatrice di quello che intende per governare (scegliere politicamente). Riferendosi alla questione cruciale del momento, Draghi ha detto che la strada del debito è una scelta politica di cui si assume pienamente la responsabilità senza scaricarla sopra suoi grandi consiglieri economici o ripetendo quello che ci siamo sentiti dire dallo scoppiare della crisi del 2008: lo chiede Bruxelles.

Per queste ragioni io penso che bisogna ridimensionare la polemica aperta dall’invito alla Fornero, di cui non si conoscono chiaramente le modalità di attuazione. Per semplificare: non penso che siamo dinanzi a un presidente del Consiglio che potrà far dire ai suoi concittadini che le scelte che si accinge ad adottare sono le proposte della Fornero. Se governare è scegliere, come diceva Mendes France, Draghi, ha già delineato con sufficiente chiarezza in Italia e in Europa le sue scelte politiche, e anche istituzionali: non sono quelle del rigore visto nelle decisioni dei Governi Europei (l’anemica Europa) nella grande crisi del 2008: una politica di buoni investimenti strategici così come definiti nel Pnrr.

La notizia della Fornero si inserisce nelle strategie delle riforme istituzionali, tra le quali quelle che riguardano il lavoro diventano sempre più urgenti in una fase di così radicali cambiamenti tecnologici, di nuovi assetti dei mercati globali, di nuove relazioni tra imprese e lavoratori sovranazionali e virtuali da rimettere in discussioni tutto il welfare costruito a partire dalla fine della seconda guerra mondiale (Beveridge Report) su salute, pensioni, disoccupazione e povertà.

È trascorso un tempo sufficiente per consentire alle forze politiche, alle imprese, ai sindacati, agli economisti e ai giuslavoristi di andare oltre le riflessioni emergenziali ed affrontare cambiamenti di leggi e contratti sopranazionali rispondenti alle sfide delle nuove forme di organizzazione della produzione e dei servizi e dei mercati del lavoro. Sono cambiamenti che investono direttamente le condizioni e gli stili di vita che formano l’oggetto di progetti di vita delle “comunità familiari” antiche e nuove.

Alla luce di questo dato di contesto diventa sempre più difficile affrontare le criticità che rendono impossibile procedere con semplici interventi emergenziali e procedere con riforme e controriforme, proprio come nel caso Fornero-antifornero, che contrastano con la necessità di approccio alla legislazione e alla contrattazione che abbia un indispensabile progetto di sistema. Il tallone di Achille di tutti i progetti di riforma sta certamente nella mancanza di un chiaro, non pasticciato, sistema unitario che abbia regole omogenee, un gestore unico valido per tutti i lavoratori pubblici privati, dipendenti e autonomi, un’unica base e un unico integrativo. Ciò che serve è una regolazione di tempi e modalità della transizione da un vecchio sistema a uno nuovo assicurando alle persone e alle comunità familiari la possibilità scegliere l’opzione migliore per utilizzare il proprio risparmio.

Nel 1979, quando fui nominato ministro del lavoro, da temerario, tentai di affrontare la questione più difficile che trovai nella agenda proponendo un disegno di legge di riforma del sistema pensionistico. Su consiglio di Gabriele Pescatore, con cui avevo lavorato per dieci anni, ebbi la fortuna di avvalermi di due eminenti giuristi che raggiunsero nel tempo i vertici del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e della Corte Costituzionale. Da loro venne il consiglio di proporre una riforma del sistema pensionistico che mettesse fine alla “giungla pensionistica”. In coerenza, la discussione si mosse dalla disciplina della transizione dal vecchio al nuovo sistema nella convinzione che una buona riforma è tale se le norme che disciplinano la transizione sono efficaci, efficienti e rispettose della vita delle persone.

Andando controcorrente i primi articoli del disegno, approvato dal Consiglio dei Ministri, iniziavano con le norme transitorie dopo aver dichiarato che, a partire dal primo gennaio 1980, tutti i lavoratori (nessuno escluso) che iniziavano una prima attività di lavoro dovessero iscriversi all’Inps nel rispetto della nuova normativa. E veniva immediatamente disciplinata la transizione di tutti i lavoratori in quel momento già in attività garantendo un ampio spazio di tempo. Nessun lavoratore era posto di fronte alle scelte come quelle della Fornero e dei suoi anti, come è avvenuto normalmente nel caso delle pensioni, materia che fa parte di scelte di vita e richiede il rispetto di una civiltà giuridica occidentale.

Purtroppo con la presentazione del disegno di legge, sebbene avesse il pieno consenso delle tre Confederazioni Sindacali, mi trovai sotto il fuoco di tutte le corporazioni che non si accorgevano che i cambiamenti demografici, tecnologici ed economici mettevano in discussione i loro regimi e i loro istituti separati. Basterebbe ricordare giornalisti, dirigenti d’azienda, magistrati e dirigenti dello stato per fermarmi alle categorie più vivaci nella polemica. Se la discussione parlamentare avesse accolto l’impostazione di quel disegno di legge si sarebbe potuto arrivare a una disciplina organica dei meccanismi di unificazione e omogeneizzazione ponendo fine alla rincorsa del dover intervenire a riparare con misure di emergenza insopportabili disuguaglianze create e ricreate nel tempo.

Alcuni autorevoli economisti e giuristi hanno nel tempo rilevato che se quel disegno di legge fosse stato discusso con un rigore critico e non ideologico e corporativo forse entro la fine del secolo passato avremmo avuto una normativa con cui conseguire una sostenibilità del sistema pensionistico fondato innanzitutto sull’utilizzo del reddito e del risparmio dei lavoratori, con una opzione integrativa e con una omogeneizzazione dei sistemi di calcolo dei requisiti e delle quantità. Ricordo quanta indifferenza accompagnò la proposta della Cisl del risparmio contrattuale e della modernizzazione del risparmio contrattuale. Credo sarebbe utile se la questione Draghi-Fornero portasse a una riflessione sulla questione lavoro capace di farci uscire dall’urgenza che porta quasi sempre a scelte assenteistiche inducendo le relazioni industriali a legare insieme salari, innovazione e produttività.

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