“Geco” è il suo nickname. In Afghanistan ha partecipato a un’operazione militare per liberare 31 ostaggi nel 2011 ricevendo poi, per le sue gesta, la Medaglia d’Oro al Valore dell’Arma dei Carabinieri. Le immagini da Kabul? “Provo stizza, rabbia, irritazione”, dice. L’intervista di Attilio Di Scala, consulente strategico indipendente
“Geco”, posso chiamarla con il suo nome di battaglia? “Si, certo. Questo è il mio nickname che mi è stato dato dai colleghi del reparto dove ho prestato servizio, per il fatto che mi piace arrampicare su ripide pareti rocciose e anche per un altro motivo ma questa è una cosa che sanno pochissime persone”.
Effettivo presso il 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania” dal 1996 al 2002 e successivamente al Gruppo Intervento Speciale fino al 2016, “Geco” è stato impiegato in quasi tutti i teatri operativi in cui le Forze Armate italiane sono state impegnate nelle attività di contrasto al terrorismo internazionale. Nel 2011, in territorio afghano, ha partecipato a una pericolosissima azione militare che ha visto la liberazione di 31 ostaggi, di cui sei italiani, finiti preda dei Talebani. Per quella operazione, gli è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valore dell’Arma dei Carabinieri con la seguente motivazione: “In una delicata operazione per la liberazione di ostaggi in territorio afghano, veniva fatto segno, insieme al suo distaccamento, a proditoria e violenta azione di fuoco. Investito dall’esplosione di una bomba a mano, con spiccato coraggio, generoso slancio ed eccezionale spirito di sacrificio, rifiutava le cure dei commilitoni esortandoli a reagire all’offesa nemica. Chiaro esempio di elette virtù militari e altissimo senso del dovere”.
Oltre alla medaglia d’oro, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano le ha anche concesso la prestigiosa Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia. Cosa si prova a essere un eroe?
Io non mi sento un eroe. Senza retorica, le rispondo come farebbe ogni soldato: ho fatto semplicemente il mio dovere. In quello scontro non ero da solo, ero con i miei colleghi e amici, un pugno di uomini dalle eccezionali capacità ai quali dedico questi riconoscimenti. Ma ricevere una medaglia significa anche vivere la paura, sentire il peso della propria dignità, credere di essere stato utile ad una causa, ed in questo caso, procurare un piccolo beneficio alle popolazioni locali. Anche se oggi mi pongo dei grandi dubbi.
Innanzitutto, come sta?
Direi bene. Ho ancora nelle gambe una ventina di schegge di granata, ma sostanzialmente ho ripreso una vita normale. Riesco anche a coltivare uno dei miei hobby preferiti, che è quello di scalare montagne.
Durante la sua carriera, ha eseguito un gran numero di operazioni ad alto rischio, sia in Italia che all’estero, quasi sempre rimanendo nell’ombra. Cosa che ha fatto anche in Afghanistan. Cosa provava in quei momenti?
Un soldato obbedisce agli ordini. E in quegli anni, ho vissuto nella convinzione che il nostro lavoro fosse veramente utile alla società civile. Negli anni precedenti all’Afghanistan ho operato in altri teatri: Albania, Bosnia, Kosovo, tutti posti dove con l’intervento della comunità internazionale la pace e la democrazia si sono ristabilite. Avevo la sensazione che la nostra presenza aiutasse la società afghana a emanciparsi, che la riaffermazione dei diritti delle donne dipendesse anche e soprattutto dal nostro impegno e che la sicurezza internazionale e la riduzione degli attentati fossero una diretta conseguenza della nostra azione di contrasto.
E cosa prova oggi nel vedere le immagini che ci giungono da Kabul?
Provo stizza, rabbia, irritazione. Certo che se gli afghani, invece di scappare, avessero preso un fucile e difeso il loro Paese, sarebbe stato molto meglio! E invece niente, i Talebani si sono nuovamente materializzati dal nulla e tutti sono scappati, l’esercito e la polizia che abbiamo addestrato ed equipaggiato per più di 10 anni hanno semplicemente deposto le armi. Si sono arresi senza porsi il minimo problema sulle conseguenze delle loro azioni. Nessuno si è assunto il rischio di provare a difendere i propri cari, le proprie donne, le figlie. Un atteggiamento decisamente inusuale, che fa meditare. Non le pare?
Forse non erano abbastanza addestrati? O forse non ritenevano di disporre di equipaggiamenti adeguati a contrastare un nemico aggressivo quale quello talebano?
A me risulta che a eccezione di qualche rarissimo caso, interi reparti dell’esercito e della polizia afgana si sono arresi senza sparare un colpo. Non mi sembra una questione di addestramento o di materiali in dotazione. Inoltre, non nutro alcun dubbio sulla qualità dell’addestramento che abbiamo impartito all’esercito regolare ed alle forze di polizia. Così, come per i materiali in dotazione, spesso identici ai nostri. Piuttosto la questione è di motivazione e di opportunità. Probabilmente la società afghana, quella delle città come quella rurale, non è mai intimamente cambiata.
Che ne sarà delle armi di cui disponeva l’esercito regolare?
Se pensavamo che i talebani non disponessero di armi ed equipaggiamenti sufficienti, ora possiamo sciogliere ogni riserva. Di fatto, si stanno impadronendo di tutto il materiale bellico dell’esercito disciolto! Senza contare gli automezzi, i blindati, gli elicotteri e gli aerei che non si è fatto in tempo a trasferire, e tutto il corredo che nemmeno ci “conviene” immaginare! Per non parlare poi degli aeroporti, delle basi militari, delle caserme. Praticamente gli abbiamo fornito un’armata “chiavi in mano”, accessoriata di tutto, con la quale potranno dilettarsi a piacimento.
Non crede che la situazione sia stata in qualche modo negoziata con gli americani?
Io non mi ritengo un complottista, ma certamente le cose non sono molto chiare. In molte parti del mondo, teatri di guerre e atrocità permangono basi militari per garantire la sicurezza, basi che servono proprio da deterrente a chi voglia ancora sovvertire la democrazia ristabilita. Basti pensare che a tutt’oggi in Kosovo è presente ed è del tutto operativa una base MSU dei Carabinieri. Quindi non capisco perché questa “fretta” di ritirare le truppe da uno degli angoli del mondo più pericolosi e nevralgici, proprio ora che i rischi per i militari occidentali si erano ridotti al minimo.
Quindi c’è stato un accordo?
Per come sono andate le cose, gli americani forse si aspettavano che la situazione non precipitasse così rapidamente. Certamente a Doha sono state siglate delle intese, sia sotto i riflettori che a luci spente. Il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid, era rinchiuso in una cella di una prigione pakistana ed è stato liberato su richiesta americana. E le prime dichiarazioni “rassicuranti e distensive” sembrano andare nella direzione di una pseudo-normalizzazione. Ma la cosa non mi fa star bene. Io credo che qualcuno abbia avuto la convinzione di poter cavalcare un cavallo pazzo, solo perché poteva foraggiarlo, ma non ritengo che sia stata una buona idea. Forse se ne accorgeranno quando quel cavallo pazzo inizierà a impennarsi.
Lei non crede nel nuovo volto dei Talebani?
Secondo me pagheremo molto cara questa decisione, sia noi occidentali sia il popolo afgano. L’Afghanistan potrebbe diventare il rifugio e l’incubatore di una nuova generazione di terroristi. Lasciamo che passi questo momento di transizione, diamogli tempo di organizzarsi e di accreditarsi come governanti “illuminati e moderati”, poi vedremo se potremo dormire sonni tranquilli! Con tutte le risorse finanziarie che deriveranno dal commercio di oppio, dai proventi dell’estrazione di metalli, di cui l’Afghanistan è ricco, dai finanziamenti segreti, dal contrabbando di armi e di gasolio e soprattutto dagli investimenti che certamente Cina, Russia e forse anche Turchia decideranno di indirizzare in quel paese, avranno risorse sufficienti per una nuova guerra santa.
Non crede di essere un po’ troppo pessimista?
Conosco i Talebani e ho convissuto con gli afghani. Spesso le culture si sovrappongono. I Talebani sono fanatici, intrisi di ideologia, accecati dall’odio, dal rancore e dalla febbre di vendetta e di rivalsa. Sul versante opposto, sinceramente non me la sento di considerare l’intero popolo afghano come vittima dei talebani. Molti hanno certamente condiviso la causa occidentale, ma in tanti, in troppi, si sono dimostrati conniventi con il sistema di corruzione che caratterizza la classe dirigente e il contesto culturale tribale. Schierarsi con chi al momento è il più forte è solo una questione di opportunità, non certamente ideologica. Il tessuto etnico e tribale del Paese non è stato modificato dalla decennale presenza occidentale. Nelle aree rurali nulla è cambiato negli ultimi dieci anni. Il solco della cultura tribale e gli equilibri etnici tradizionali si sovrappongono agli insegnamenti delle scuole coraniche talebane. Stiamo assistendo a scene impietose. Dopo aver visto le immagini che provengono da Kabul, lei si fiderebbe di loro?
In cosa abbiamo sbagliato?
Nel pensare che la situazione afghana si risolvesse solo ed esclusivamente con l’intervento militare e con una pioggia di denaro erogato alla nuova classe dirigente. I soldati occidentali hanno fatto fin troppo bene il loro dovere ed io, come molti altri, ne portiamo ancora addosso le cicatrici e noi siamo tra quelli fortunati perché molti altri non ce l’hanno fatta a tornare a casa dai propri cari. Ma la società “cosiddetta” civile, la politica, l’Europa, cosa hanno davvero fatto in questi anni per sostenere un vero, radicale cambiamento? Gli strateghi da tastiera, quelli che oggi commentano la situazione sorseggiando un drink sotto l’ombrellone, che presentano libri o partecipano a talk-show, quanto conoscono del Medio Oriente, della realtà centro-asiatica e delle società islamiche? Forse hanno letto qualche libro di avventura come il “Grande gioco”, “Kim” o “Il cacciatore di aquiloni”. Le assicuro che la realtà supera di gran lunga la letteratura. Mi viene da sorridere (per non dire altro) a vedere i politici occidentali che oggi si dicono sorpresi di ciò che sta accadendo in Afghanistan, che non si spiegano come sia potuto accadere. Ma nessuno si interroga su quale modello di convivenza tra Oriente e Occidente sia effettivamente possibile. Il concetto stesso di comunità, per la sharia, si fonda su una concezione totalizzante. Beh, spero solo che l’Emirato islamico dell’Afghanistan non persegua una nuova strategia di globalizzazione del suo credo.
Si sente raggirato?
Ripeto, un soldato obbedisce agli ordini. Ma se mi avesse chiesto se mi sento deluso, le avrei risposto di sì.
*Attilio Di Scala è consulente strategico indipendente. Esperto per gli scenari Mediterraneo Orientale, Medio Oriente e Nord Africa, ne segue dinamiche e connessioni sia economiche sia industriali