Preoccupata per la concreta nuova minaccia terroristica, Mosca è pronta a partecipare a un consesso più ampio, come il G20, per gestire l’attuale crisi a Kabul. Palla all’Occidente. L’analisi di Igor Pellicciari (Università di Urbino) e Vincenzo Ligorio (Accademia presidenziale russa)
Per il successo in politica estera di uno Stato dominante, avere un nemico prevedibile con cui confrontarsi può talvolta essere tatticamente utile almeno quanto il potere contare su un amico affidabile. I vantaggi sono molteplici: dalla motivazione a raggiungere risultati sempre più ambiziosi sotto la spinta della competizione fino alla possibilità di scaricare proprie tensioni interne spostando l’attenzione e responsabilità sull’altro.
È un tipo di interazione che si è andato consolidando anche nella tradizionale dinamica politica tra gli Stati Uniti e la Russia.
Nonostante vi siano a volte sconfinamenti in dure contrapposizioni sfuggite di mano – come quando di recente Joe Biden ha dato dell’assassino (sic) a Vladimir Putin – è uno schema di relazione rassicurante che in fin dei conti ha fatto comodo a entrambi i contendenti.
Davanti al rapido degenerare della situazione a Kabul, era dunque prevedibile che – anche per alleggerire la montante pressione critica sull’amministrazione statunitense – ancora una volta si ricorresse ad evocare il Cremlino come “spaventapasseri” nel tentativo di fare desistere il fronte occidentale da un totale disimpegno in Afghanistan.
Il principale argomento utilizzato a riguardo è stato che Mosca, agendo da catch-all actor sul piano internazionale, sarebbe pronta e anzi non aspetti altro che occupare gli spazi vuoti lasciati dalla ritirata a Kabul per insediarsi nel Paese e trarne immediato e facile vantaggio.
Come è spesso il caso in politica internazionale, la realtà è più complessa di una raffigurazione piuttosto semplicistica, per una serie di motivi al contempo storici, politici interni e geopolitici generali.
La ferita maturata nella disastrosa campagna dell’Unione Sovietica in Afghanistan è ancora viva nell’immaginario russo convinto che quell’intervento militare azzardato insieme a una crisi economica irreversibile abbia assestato il colpo di grazia all’esperienza statuale sovietica.
Avvisati gli Stati Uniti vent’anni fa che sarebbero stati logorati da un esperienza militare in terre impervie e abituate alla guerriglia tribale su un vasto territorio montuoso, Mosca ovviamente in questi anni non ha perso occasione di sottolineare e se del caso anche giocare sulle forzature compiute da Washington nella sua campagna afghana. Tanto più che questa, un po’ come avvenuto in Kosovo, ha puntato a creare un fronte internazionale sì variegato, ma senza un vero coinvolgimento russo.
Tuttavia, al netto del gioco delle parti contrapposte degli eterni contendenti, Mosca non ha mai preso in considerazione un suo ritorno in prima persona a Kabul, nelle forme e nei modi diplomatici e militari che caratterizzarono l’invasione sovietica. Tanto meno prende in considerazione l’ipotesi oggi, preoccupata dalle possibili conseguenze sul piano interno di un eventuale nuovo invischiarsi nella palude afghana, dove la frammentata leadership talebana impedisce di individuare degli interlocutori locali certi e stabili. Non a caso, anche la Russia in questi giorni ha provveduto a evacuare su ordine diretto di Putin gran parte dei suoi cittadini presenti in Afghanistan.
A questa estrema cautela contribuisce anche il momento di particolare debolezza vissuto dal Cremlino nell’ultimo anno e mezzo. Trovatasi a giocare in difesa con un inconsueto attendismo su quasi tutti i principali dossier che l’hanno riguardata, con la scoperta di Sputnik V unica vera freccia nell’arco, Mosca teme l’impatto negativo di un ritorno in Afghanistan sulle elezioni parlamentari del prossimo 19 settembre. Tra le recenti competizioni elettorali, queste si presentano come le più incerte con il partito di governo Russia Unita dato già così in caduta libera dai sondaggi indipendenti in circolazione.
Infine, un azione diretta russa in Afghanistan andrebbe contro una linea geopolitica seguita piuttosto rigorosamente da Mosca da almeno 15 anni e inaugurata dal discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007. Applicata pedissequamente dai diplomatici al potere nei posti chiave della funzione pubblica russa, essa manifestò la convinzione della necessità di un ritorno alla multilateralità inclusiva soprattutto in quei settori – su tutti l’anti-terrorismo – sentiti da Mosca come pilastro contro la crescente instabilità internazionale.
Tuttavia, in quelle parole di Putin il fronte occidentale lesse solo la volontà (reale) di Mosca di tornare ad avere un ruolo internazionale di primo piano; tentativo ovviamente non visto di buon occhio, abituato com’era alla Russia post-sovietica allo sbando pure in politica estera.
Quasi un decennio dopo, nel 2016, in occasione del negoziato sul transito di truppe americane sul territorio russo, con una logica simile il ministro degli Esteri Sergej Lavrov rilanciò all’amico-rivale John Kerry la proposta di un nuovo piano di state-building per l’Afghanistan co-gestito da Washington, Mosca e Pechino. Temendo il ritorno dei talebani mai del tutto sconfitti, Mosca si proponeva allora come ora come mediatore esterno, disposta a rafforzare il coinvolgimento di Pechino (e salvare quello di Washington) a scapito della propria precaria posizione nell’area. Ma permettendo al contempo al Cremlino di non dovere farsi carico, dopo quella siriana e ucraina, di una nuova crisi afghana dalle sicure conseguenze devastanti sul consenso interno. In definitiva, per Mosca (nel proporsi come facilitatore esterno, come con il primo accordo nucleare iraniano) come per Washington (nel disimpegnarsi frettolosamente da Kabul) la strategia in Afghanistan non è tanto risultato dello scenario geopolitico locale quanto delle motivazioni (e paure) di politica interna.
Preoccupata per la concreta nuova minaccia terroristica legata a organizzazioni incubatesi alle porte di casa, Mosca per via di Lavrov nell’incontro con Mario Draghi ha nuovamente rimarcato la volontà di partecipare a un consesso più ampio, come il G20, per gestire l’attuale crisi a Kabul. Dal canto suo, l’Occidente fatica a ricevere una proposta di alleanza da quello che a tutt’oggi è visto forse come il più comodo e rassicurante nemico di politica estera. Basti vedere per esempio la linea tenuta dall’Unione europea nei confronti dei No-Vax: criticati e osteggiati a Occidente, tollerati e a momenti blanditi a Oriente. Non per la loro opposizione ai vaccini, ma a Putin.