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Perché l’Afghanistan non è una sconfitta

Di Andrea Gilli e Mauro Gilli

Andrea Gilli, senior researcher al Nato Defense college, e Mauro Gilli, senior researcher al Center for security studies del Politecnico di Zurigo, riflettono sul ritiro dall’Afghanistan che, per quanto complesso, non è una sconfitta né per gli Usa, né per l’Alleanza, entrambi politicamente meno interessati a un Paese non più strategico. Restano, però, numerose incognite

La crisi in Afghanistan ha attratto enorme attenzione, generato preoccupazioni e anche sollevato numerosi interrogativi. Non è la fine degli Stati Uniti, della Nato o dell’Occidente, come alcuni hanno detto. Stati Uniti e alleati Nato se ne vanno dall’Afghanistan non perché sconfitti militarmente, ma perché politicamente sempre meno interessati al Paese considerato, a torto o a ragione, poco rilevante rispetto ad altre sfide (pandemia, cambiamento climatico e Cina). Liberarsi di una fonte di costo non è, solitamente, la ragione per cui gli imperi crollano, anzi.

Ovviamente non è stata una grande immagine, ma le immagini nella competizione globale contano relativamente poco. Anche la questione collegata della credibilità, tirata in ballo da molti osservati, è esagerata. La credibilità tra Paesi conta. Si ritiene che un tema sia fondamentale e si è disposti a difenderlo in tutti i modi. Ma il ritiro dall’Afghanistan è il risultato del processo opposto: come detto, il Paese non veniva più considerato strategico. Non si capisce, dunque, quanto le immagini dell’aeroporto di Kabul scalfiscano davvero la credibilità statunitense o della Nato. Danno, purtroppo, un’immagine non idilliaca sulla preparazione e sulla gestione: ma questo è un altro tema.

Cina, Russia e Iran ne escono avvantaggiati, ma molto meno di quanto alcuni sostengano. A eccezione della geopolitica di Risiko, in cui si ragiona per spazi vuoti da colmare, nel mondo reale ogni iniziativa ha costi e rischi. È tutto da verificare, infatti, quanto stabile sarà l’Afghanistan nei mesi e anni a venire e soprattutto se e quanto Cina, Russia e Iran riusciranno effettivamente a cooperare con i talebani.

Un aspetto centrale riguarda infatti il rischio di guerra civile o comunque la partizione del Paese secondo linee etnico-politiche. Ci sono due pressioni contrastanti. Da una parte, i talebani hanno bisogno di creare un governo inclusivo per cercare di ottenere il riconoscimento internazionale, passaggio fondamentale per avere accesso ai fondi del Paese congelati all’estero, agli aiuti internazionali e ai finanziamenti. Dall’altra, un governo inclusivo richiede cooperazione e fiducia tra più parti, ma questa manca. Manca perché gli afghani cercano di scappare dal Paese. Manca perché la corruzione che ha attanagliato l’Afghanistan ha logorato la fiducia nelle istituzioni pubbliche. Manca perché i talebani anziché rispettare gli accordi di Doha si sono presi con la forza ciò che invece era sul tavolo dei negoziati politici. È stato finora difficile trovare la cooperazione tra i pashtun, gli hazara, i tagiki e gli uzbeki; l’aggiunta dei talebani a questo mix non renderà la partita meno burrascosa. Anche perché un governo inclusivo significa nominare polizia, esercito, Intelligence.

Il regime dei talebani ha dunque bisogno dei fondi della banca centrale, congelati all’estero, e degli aiuti stranieri. I governi occidentali vogliono invece veder tornare i loro cittadini, i loro diplomatici e i loro militari ancora in Afghanistan. È una dinamica di reciproci ostaggi. Finora i talebani hanno promesso di permettere la continuazione delle operazioni di evacuazione. Non mancano però le incognite. L’economia del Paese è destinata a contrarsi bruscamente: se le operazioni di evacuazione dovessero prolungarsi, qualche membro dei talebani potrebbe usare i cittadini occidentali come merce di scambio. Il paragone più corretto non è quindi Saigon 1975 ma Teheran 1980, con la differenza che non ci sarebbero un’ottantina di ostaggi ma diverse migliaia.

L’analogia di Teheran è utile perché dopo una rivoluzione politica si percorre spesso la strada del compromesso. Frange più estremiste possono però cercare, con azioni di forza, di boicottare la via del dialogo per imporre la visione più intransigente. Successe in Iran. Potrebbe succedere a Kabul. Ricordiamoci infatti che non molti anni fa i talebani dovettero competere con lo Stato islamico che si era espanso in Afghanistan grazie al suo fanatismo.

Molte questioni restano aperte, dalla lotta al terrorismo post-ritiro alla tutela dei diritti nell’Afghanistan dei talebani. Per ora, la priorità è far tornare tutti a casa. La data ufficiale è 31 agosto. Quella effettiva è il 10 settembre.

Le opinioni espresse dagli autori sono strettamente personali e non riflettono le posizioni ufficiali della Nato o del Nato Defense college.


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